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Musrara, Gerusalemme sconosciuta

Miriam Mezzera
26 aprile 2012
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Sculture moderne e a volte bizzarre, tele dipinte e appoggiate sui muri di pietra, famiglie di ebrei ortodossi che fanno colazione sotto verande sommerse dalle piante, attivisti di organizzazioni non governative e artisti eccentrici sempre pronti a raccontare qualche storia. Sono alcuni degli scorci che offre il quartiere di Musrara, appena fuori le mura della Gerusalemme vecchia, a due passi dalla porta di Damasco.


Sculture moderne e a volte bizzarre, tele dipinte e appoggiate sui muri di pietra, famiglie di ebrei ortodossi che fanno colazione sotto verande sommerse dalle piante, attivisti di organizzazioni non governative e artisti eccentrici sempre pronti a raccontare qualche storia: questi alcuni degli scorci che oggi offre il quartiere di Musrara (o Morasha), appena al di fuori delle mura della città vecchia di Gerusalemme. Si tratta di un microcosmo dove si riflette la complessità di Gerusalemme, con le sue barriere fisiche, sociali e culturali. È chiamato “quartiere-cucitura”, per il fatto di essere incastonato tra la parte più moderna e secolarizzata della città, il quartiere degli ebrei ultraortodossi (Meah Shearim) e la zona araba-musulmana. Posizione che ne ha determinato nel corso del tempo la diversità  sociale e culturale, e che talvolta è causa di conflitti più o meno sotterranei. Ma nello stesso tempo tra le strade strette di questo quartiere si scorge una forza creativa che scalpita per trovare nuove modalità di una possibile convivenza.

Come gran parte della città di Gerusalemme, anche Musrara ha cambiato fisionomia più volte, seguendo gli umori politici, sociali e militari della storia recente. Situato subito al di fuori della Porta Nuova, sul pendio che scende dalla collina del municipio e giunge fino ad abbracciare gli edifici di fronte alla porta di Damasco, Musrara nasce nella seconda metà dell’Ottocento come estensione del quartiere cristiano. È una delle prime aree che vengono edificate al di fuori delle grandi mura di Solimano – nello stesso periodo nasce il quartiere di Yamin Moshe e poco dopo quello di Meah Shearim – e inizialmente assume l’aria di un quartiere esclusivo, carico di influenze occidentali. Qui vivono gli esponenti di molte Chiese e comunità cristiane, e man mano il quartiere si popola soprattutto di famiglie arabe piuttosto agiate. Fino alla guerra del 1948, che vede quest’area diventare No Man’s Land, terra di nessuno: tra queste strade strette poste sul confine tra l’est e l’ovest di Gerusalemme si combatte, e si scrive parte della storia del nascente Stato d’Israele. Quest’area rimane infatti dalla parte ebraica della città, e le case, abbandonate in fretta e furia dai loro abitanti arabi, rimarranno inabitate fino al ’67.

Con la guerra dei Sei Giorni Israele occupa Gerusalemme est, fino ad allora sotto il dominio giordano, e il quartiere riprende pian piano a vivere: le case abbandonate e completamente in rovina vengono anch’esse occupate dagli ebrei giunti in gran numero dall’estero: dai Paesi arabi soprattutto, ma anche dall’Europa e dall’America. Secondo una voce che corre tra chi ha vissuto il periodo, entrando nelle case gli occupanti trovarono ancora le tavole apparecchiate, con il cibo sopra, a testimoniare la furia con la quale gli abitanti precedenti dovettero fuggire. Il quartiere, ora ripopolato, tuttavia non viene in alcun modo rimesso in sesto. Ai leader politici dell’epoca non interessa e non hanno intenzione di spendere energie per ricostruire un’area in cui non vedono interessi strategici. Ben presto, così, Musrara assume le sembianze di un vero e proprio ghetto: non c’è elettricità né acqua corrente, povertà e criminalità crescono a dismisura, la negligenza regna sovrana. È in questo periodo, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta che nasce il movimento Black Panthers («le Pantere nere»): sul modello dei loro omonimi in America, questo gruppo di contestatori mizrahi (ebrei provenienti dai Paesi mediorientali) fanno della lotta violenta contro l’ingiustizia sociale a cui sono sottoposti la loro ragion di vita. Il movimento nasce nel cuore di Musrara, e da qui in breve tempo i loro atti di protesta si estenderanno a tutto il Paese. Golda Meir, primo ministro dell’epoca, cerca di isolarli e di sminuire il loro ideale di eguaglianza sociale con la frase che ora dà il nome a una strada del quartiere: They’re are not nice, «Non sono brava gente».

Musrara giunge finalmente a una svolta quando, dopo il cambiamento avvenuto ai vertici del governo israeliano, nel ’77, il Likud va al potere e si decide di investire nella riqualificazione del quartiere. Le case vengono ristrutturate, si procede alla ricostruzione di molti edifici e alla creazione di spazi pubblici, ma tutto ciò avviene senza alcun spostamento degli abitanti: i Black Panthers si mostrano decisi a restare nelle loro case durante i lavori di ristrutturazione, e molti di loro ancora vivono nel quartiere.

La tensione tra forze sociali opposte, che nel corso dei decenni ha caratterizzato questo quartiere, è ancora oggi ben viva. Tra i circa cinquemila abitanti di Musrara vivono sia ashkenazi (ebrei provenienti dall’Europa dell’est) che mizrahi (ebrei dal Nord Africa e da vari Paesi del Medio Oriente), così come molti ebrei atei e molti stranieri.

Secondo Matan, giovane artista ebreo che qui vive e che ben incarna lo spirito, del quartiere «la municipalità di Gerusalemme ci tiene a mantenere la pluralità e la vivacità culturale di quest’area». E il gruppo di artisti di cui Matan fa parte – l’associazione si chiama Muslala – ne sono una dimostrazione, con il loro attivismo creativo e con la loro voglia di apertura. Non ha nessun timore questo giovane ebreo a recarsi anche dall’altro lato di Musrara, quello al di là del muro di cinta e della grande strada trafficata, quello abitato dagli arabi in prevalenza musulmani. Inizialmente queste due parti, ora tagliate in due dall’arteria che collega Porta di Damasco con il nord della città, erano unite. Ora, per questioni di sicurezza, le autorità israeliane le hanno di fatto separate. Per fortuna c’è ancora chi sa andare al di là dei muri: in perfetto arabo, il giovane artista ordina un piatto di hummus in uno dei ristorantini affollati che si affacciano sulla strada della parte est. E commenta soddisfatto «È il miglior hummus di tutta Musrara!».

All’interno del quartiere molte delle proprietà immobiliari rimangono delle varie Chiese, che nel tempo le hanno però affittate o cedute agli ebrei immigrati dall’estero. Alcune di esse tuttavia hanno mantenuto ferma la loro posizione, come il grande complesso delle suore salesiane, nato prima del ’48 e tuttora attivo con al suo interno un asilo e una scuola. Ma realtà come questa, espressione della presenza cristiana da cui il quartiere ha preso vita, rimangono poche e isolate, e oggi i cristiani sono disincentivati a stabilirsi qui per via della sempre maggior percentuale di ebrei ortodossi.

Tra una yeshivà (scuola di studio della Torah) e una sinagoga, non di rado si trovano a Musrara piccole gallerie indipendenti, case stravaganti con giardini pensili, luoghi di ritrovo per giovani artisti, con pochi soldi e molte idee. Il quartiere mostra così la sua anima dinamica: le istallazioni cambiano di tempo in tempo, i pannelli che si trovano lungo le strade vengono ridipinti a seconda delle ispirazioni, e ognuno può decidere di mostrare la propria opera semplicemente appendendola sul muro fuori casa. Luoghi interessanti di ritrovo sono poi la scuola di fotografia e la scuola di musica orientale: qui ci si può imbattere in un concerto improvvisato di musica tradizionale turca, o in una esposizione di fotografie sulle nuove espressioni giovanili. Ed è in questi spazi che certamente si possono incontrare molte delle personalità che contribuiscono a rendere Musrara un luogo in cui la convivenza è possibile, oltre gli estremismi.

(Questo articolo compare anche sul numero di maggio-giugno 2012 del bimestrale Terrasanta)

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