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In Medio Oriente la pena di morte guadagna terreno

Lucia Balestrieri
29 marzo 2012
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In Medio Oriente la pena di morte guadagna terreno
Il logo di Amnesty International.

Il boia è all'opera soprattutto in Medio Oriente. Nella regione, infatti, le esecuzioni capitali nel 2011 sono aumentate del 50 per cento rispetto al 2010. Nella sola Arabia Saudita si sono triplicate. È quanto denuncia il rapporto annuale diffuso in questi giorni da Amnesty International sugli «omicidi di Stato» nel mondo.


(Milano) – Il boia è all’opera soprattutto in Medio Oriente. Nella regione, infatti, le esecuzioni capitali nel 2011 sono aumentate del 50 per cento rispetto al 2010. Nella sola Arabia Saudita si sono triplicate. È quanto denuncia il rapporto annuale diffuso in questi giorni da Amnesty International sugli «omicidi di Stato» – così li definisce l’organismo umanitario – compiuti nel mondo. Mentre diminuiscono i Paesi che ancora fanno ricorso alla pena di morte – nel 2011 solo 20 su 198 – il numero complessivo di esecuzioni capitali è lievitato.

Nel 2011 sono state messe a morte ufficialmente 676 persone: di queste, 541 in quattro Paesi mediorientali. In testa l’Iran, con almeno 360 esecuzioni avvenute, seguito dall’Arabia Saudita con 82, dall’Iraq con almeno 68 e dallo Yemen con almeno 41. Altre tre esecuzioni sono state compiute a Gaza, una in Egitto e una negli Emirati Arabi Uniti.

Al di là dei dati ufficiali, vi è il buco nero dei giustiziati non dichiarati. Un discorso che non vale solo per le migliaia di condannati a morte in Cina, ma anche per diversi Paesi islamici. Per esempio l’Iran, dove Amnesty ritiene che il numero di «omicidi di Stato» sia di 634, con 274 esecuzioni mai rese note ed avvenute soprattutto nel carcere di Vakilabad a Mashhad. O il caso della Libia, dove l’organizzazione umanitaria è a conoscenza di «esecuzioni extragiudiziali, torture e detenzioni arbitrarie». «Le speranze iniziali che le rivolte (della Primavera araba) avrebbero portato anche a cambiamenti positivi per quanto riguarda la pena di morte devono ancora essere realizzate», si legge nel rapporto.

Oltre ai numeri, Amnesty stigmatizza anche i motivi che hanno portato alla pena di morte nei Paesi mediorientali: «presunti reati connessi all’uso di droga», «reati definiti politici in modo vago», accuse di adulterio (in Iran) e di stregoneria (in Arabia Saudita).

Tra le persone giustiziate in Iran ci sono stati tre minorenni e quattro donne. Almeno 50 esecuzioni sono avvenute in pubblico, quasi il quadruplo rispetto al 2010 e nonostante che una direttiva del 2008 le sconsigliasse. Spesso le famiglie e persino gli avvocati non sono riusciti ad avere contatti con il condannato a morte, né durante il processo né dopo la sentenza, afferma il rapporto.

Tra le 82 persone messe a morte in Arabia Saudita nel 2011 (contro le 27 del 2010) ci sono stati 28 stranieri, per lo più lavoratori immigrati nel Regno dei petrodollari, cinque donne e un minorenne. «La gran parte dei prigionieri – scrive Amnesty – non ha avuto un giusto processo conforme agli standard internazionali. Spesso non hanno avuto un avvocato difensore. In diversi casi le condanne sono state emesse unicamente sulla base di confessioni ottenute sotto costrizione o con l’inganno».

Verso l’Arabia Saudita, l’Iran e tutti gli altri Paesi che continuano ad usare la pena capitale, il messaggio di Amnesty non lascia dubbi: «Non siete al passo con il resto del mondo ed è tempo che prendiate iniziative per porre fine alla più crudele, disumana e degradante delle punizioni», ha dichiarato l’indiano Salil Shetty, segretario generale dell’organizzazione.

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