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Stoppati all’Onu, i palestinesi giocano la carta Unesco

Giampiero Sandionigi
6 ottobre 2011
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Stoppati all’Onu, i palestinesi giocano la carta Unesco
Il presidente dell'Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, interviene all'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 23 settembre scorso. (foto Onu/Marco Castro)

È trascorsa una decina di giorni dall'intervento del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas davanti all’Assemblea generale dell'Onu. Gli hanno subito fatto eco, nella stessa sede, il primo ministro israeliano e il Quartetto, che dà un altro anno di tempo alle due parti. Intanto la Palestina tenta di ottenere almeno l'ingresso nell'Unesco...


(Milano) – È trascorsa una decina di giorni dal discorso del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York. Quali esiti ha già prodotto? Essenzialmente uno: tutte le parti in gioco hanno messo nuovamente le carte in tavola e si sono prese altro tempo per cercare di uscire dalle sabbie mobili.

L’intervento di Abu Mazen, pronunciato in lingua araba, è stato seguito con entusiasmo dal popolo palestinese, sceso nelle piazze per seguire in diretta tivù su maxi schermi le parole del suo massimo rappresentante. All’Onu c’era il clima delle grandi occasioni: tutti i seggi occupati e numerosi applausi dell’uditorio.

Abu Mazen, dopo aver ricapitolato le sofferenze della sua gente, ha ribadito di non voler delegittimare Israele, ma semmai contestarne la politica di colonizzazione dei Territori occupati nel 1967. «L’attività degli insediamenti – ha detto il presidente – racchiude l’essenza della politica colonialistica dell’occupazione militare della terra del popolo palestinese e tutta la brutalità dell’aggressione e della discriminazione razziale contro il nostro popolo insita in quella politica. Una politica che viola la normativa umanitaria internazionale e le risoluzioni delle Nazioni Unite, è la causa primaria del fallimento del processo di pace e del collasso di dozzine di opportunità, ed è come una pietra sepolcrale sulle grandi speranze generate dalla firma della Dichiarazione di princìpi nel 1993 tra l’Organizzazione per la liberazione della Palestina e Israele, per il raggiungimento di una pace giusta che dia inizia a una nuova epoca per la nostra regione»).

Chiedere di poter sedere nell’Onu come Stato membro riconosciuto dalla comunità internazionale risponde alla logica di dare maggior legittimazione e forza alla Palestina nel momento in cui negozia con Israele, ha spiegato il capo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), subito dopo aver consegnato l’annunciata richiesta ufficiale al segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon.

Dopo Mahmoud Abbas, in un’aula meno affollata, ha preso la parola il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha rinfacciato alla massima organizzazione internazionale scarsa sensibilità alle ragioni di Israele («Qui all’Onu, maggioranze automatiche possono deliberare qualunque cosa. Possono decidere che il sole sorge a Occidente. Così come possono decidere – come hanno fatto – che il Muro occidentale, il luogo più sacro per il giudaismo, è Territorio palestinese occupato»). Il premier ha poi ribaltato le accuse: è la dirigenza palestinese che non vuole negoziare la pace («La verità è che Israele vuole la pace con uno Stato palestinese, mentre i palestinesi vogliono uno Stato senza pace. (…) I palestinesi devono prima firmare la pace con Israele e poi otterranno il loro Stato».)

Considerata l’esiguità del proprio territorio, gli israeliani pretendono garanzie per la loro sicurezza. Non vogliono che la Cisgiordania diventi un territorio ostile come Gaza, dice Netanyahu. Il suo governo chiede il controllo dello spazio aereo e la creazione di basi militari israeliane permanenti nei Territori palestinesi («per difendere se stessa, Israele deve perciò mantenere una presenza militare a lungo termine nelle aree strategicamente critiche della Cisgiordania»). Prospettiva che i palestinesi considerano inaccettabile.

I due antagonisti hanno espresso chiaramente le proprie posizioni davanti al mondo. La domanda di ammissione come nuovo Stato membro presentata da Abu Mazen è stata inoltrata al Consiglio di sicurezza, il quale la esaminerà senza fretta, prima di offrire il suo indispensabile pronunciamento all’Assemblea generale. La carica dirompente dell’iniziativa palestinese è stata per il momento depotenziata con un lavorio diplomatico che ha ottenuto un primo risultato: salvare la faccia di tutti e provare nuovamente a rilanciare i colloqui di pace.

La stesso pomeriggio del 23 settembre a New York è stato reso pubblico un comunicato del Quartetto per il Medio Oriente (il coordinamento tra Onu, Stati Uniti, Unione Europea e Russia). Il testo, in sei punti, chiede tra l’altro che entro un mese israeliani e palestinesi concordino un metodo e un’agenda per la ripresa dei negoziati e che questi ultimi portino a un accordo entro la fine del 2012, anche grazie a un’apposita conferenza da convocare a Mosca. Per agevolare il percorso il Quartetto invita nuovamente le parti ad «astenersi da azioni provocatorie». Solo una settimana più tardi il governo israeliano ha autorizzato la costruzione di un migliaio di nuove case nell’insediamento israeliano a Gilo, posto a sud di Gerusalemme alle porte di Betlemme. Un semplice via libera burocratico di una pratica già istruita da tempo, spiegano gli israeliani, ma la cosa è suonata diversamente agli orecchi dei palestinesi e dei membri del Quartetto.

Nel frattempo i palestinesi hanno presentato istanza di ingresso a pieno titolo anche nell’Unesco – l’agenzia Onu che si occupa di cultura, scienza e istruzione – dove ora siedono in veste di osservatori permanenti (così come all’Assemblea generale delle Nazioni Unite). Il 5 ottobre il Consiglio esecutivo dell’Unesco si è espresso a favore della richiesta con il voto favorevole di 40 dei 58 membri (contrari i rappresentanti di Germania, Lettonia, Romania e Stati Uniti, astenuta l’Italia). Ora la parola passa alla Conferenza generale dell’agenzia (193 membri) che per accogliere la richiesta deve esprimere i due terzi dei sì. Gli Usa, per bocca del segretario di Stato Hillary Clinton, hanno invitato l’Unesco a soppesare bene le conseguenze delle sue decisioni, avvertendo che gli Stati Uniti potrebbero anche vedersi costretti a sospendere il loro contributo al bilancio dell’organizzazione davanti a una decisione che non condividono.

 


 

La posizione della Santa Sede

Anche la Santa Sede ha espresso il suo punto di vista sulla richiesta di ammissione come Stato membro nell’Onu presentata dalla dirigenza palestinese.

Il 27 settembre l’arcivescovo Dominique Mamberti, segretario per le relazioni con gli Stati (una sorta di ministro degli Esteri vaticano), ha preso la parola davanti all’Assemblea Onu, spiegando che la Santa Sede considera la richiesta palestinese di vedersi riconoscere come Stato membro «nella prospettiva dei tentativi di trovare una soluzione definitiva, con l’appoggio della comunità internazionale, alla questione già affrontata dalla risoluzione 181 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite in data 29 novembre 1947. Questo documento fondamentale pone la base giuridica per l’esistenza di due Stati. Uno di essi ha già visto la luce, mentre l’altro non ha ancora stato costituito, benché siano passati quasi sessantaquattro anni. La Santa Sede è convinta che, se si vuole la pace, bisogna saper adottare delle decisioni coraggiose».

Detto ciò anche la diplomazia pontificia sottolinea che una vera pace e una soluzione completa del conflitto non potranno venire che dai negoziati, «condotti in buona fede», tra israeliani e palestinesi. (g.s.)

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