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Bacino mediterraneo, c’è ancora schiavismo

Gioia Reffo
31 dicembre 2010
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Bacino mediterraneo, c’è ancora schiavismo

Un giro d’affari che frutta 32 milioni di dollari l’anno. Oltre 2 milioni e mezzo di persone tenute prigioniere nel mondo. Sono i numeri della schiavitù nel XXI secolo, messa al bando a parole, ma tollerata nei fatti. È quanto emerge dal Forum contro il traffico degli esseri umani tenutosi a Luxor, in Egitto, a metà dicembre.


(Milano) – Un giro d’affari che frutta 32 milioni di dollari l’anno. Oltre 2 milioni e mezzo di persone tenute prigioniere nel mondo. Sono i numeri della schiavitù nel XXI secolo, messa al bando a parole ma tollerata nei fatti. È quanto emerge dal Forum contro il traffico degli esseri umani tenutosi a Luxor, in Egitto, a metà dicembre. Due giorni di incontri e passerelle istituzionali capaci solo di evidenziare l’inadeguatezza delle organizzazioni internazionali a proposito di lotta alla schiavitù. Mentre tra i templi faraonici si discuteva di come coordinare agenzie e iniziative, nel deserto del Sinai più di 250 migranti eritrei cadevano nella trappola preparata dai trafficanti. Condotti in mezzo al nulla, derubati di soldi e documenti, sono schiavi a tutti gli effetti da più di un mese. Ma il loro grido di aiuto non è arrivato né a Luxor né alle autorità egiziane che fino a pochi giorni fa bollavano come «invenzione» la notizia stessa.

Il piano annunciato dalla first lady egiziana Suzanne Mubarak non poteva essere più sintetico: prevenzione, protezione, partecipazione e azione penale. Quattro punti da sviluppare tra gennaio 2011 e il 2013. Dalla conferenza è emerso che bambini e giovani rappresentano una parte consistente del traffico di esseri umani. Il mercato del sesso poi, alla continua ricerca di clienti, sfrutta vittime sempre più giovani e finisce per coprire il 79 per cento del traffico. Solo il 18 per cento è considerato vero e proprio lavoro forzato. Per un’azione più efficace si è voluta collegare la lotta contro la tratta di esseri umani con altre campagne in corso: dalla tutela dei diritti umani alla violenza contro donne e bambini, l’Aids e i minori scomparsi. Peccato che gli ospiti intervenuti, dal segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon a sultani, filantropi come Warren Buffet e star di Hollywood del calibro di Demi Moore, passando per l’ex presidente americano Jimmy Carter, non abbiano preso alcuna decisione su iniziative concrete come il pattugliamento dei confini nazionali e le richieste di asilo.

«Non penso nemmeno che l’Egitto ci provi a contrastare il traffico» afferma Anna Pozzi, giornalista, esperta di Africa e autrice insieme a suor Eugenia Bonetti di Schiave, un libro-inchiesta su quella che si può chiamare una vera e propria compravendita delle donne che finiscono nel giro della prostituzione. «Una mafia internazionale – come la definisce Anna – che opera con grande flessibilità. Spostare le frontiere sempre più a sud non serve».

L’Egitto però non è l’unico Paese del bacino mediterraneo ad avere un atteggiamento ambiguo verso i nuovi arrivati. Anche Israele deve fare i conti con un’ondata di immigrati che non accenna a diminuire. Lo sanno bene gli abitanti di Eilat, sul Mar Rosso, che dal 2006 hanno visto passare da 500 a 1.000 gli stranieri clandestini presenti in città. Un numero troppo alto per passare inosservato tra i 60 mila residenti. Grazie a misure legislative sempre più restrittive il governo di Tel Aviv sta rendendo sempre più difficile la vita agli stranieri:

Secondo il ministero dell’Interno israeliano circa 35 mila migranti africani si sono stabiliti in Israele illegalmente negli ultimi quattro anni. Gli israeliani non sono certo insensibili alle sofferenze di uomini e donne che hanno scelto di lasciare il proprio Paese a causa delle guerre o della povertà. Ma molti sono preoccupati che i nuovi arrivati occupino i quartieri e le autorità già alimentano lo spettro di un’invasione che farebbe degli ebrei in una minoranza nel loro stesso Paese.

Come in Israele, anche la presenza di lavoratori stranieri in Libano sta provocando malcontento tra la popolazione. Solo che, a differenza dei loro vicini, i libanesi finiscono per ridurre in schiavitù le giovani che arrivano per lavorare come domestiche. Si contano a decine le storie di donne a cui le famiglie ospitanti sequestrano i documenti per evitare che fuggano o, peggio, vengano rimpatriate nel Paese d’origine allo scadere del contratto d’assunzione. Una segregazione che le rende schiave dei loro datori di lavoro.

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