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«Il mondo ascolti il grido dei cristiani iracheni»

15/06/2007  |  Amman
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Padre Raymond Moussalli, vicario del patriarcato caldeo di Baghdad in Giordania, ci racconta le sofferenze dei cristiani iracheni. Ha uno studiolo ricavato in un seminterrato di Jebel Luweibeh, nel cuore dell'immensa capitale giordana. Fuori capannelli di persone si fermano a chiacchierare o ad accendere ceri alla Madonna, nella cappella ricavata in un garage. Il tema delle conversazioni, tra profughi iracheni, sono le ultime violenze nella terra d'origine, del rapimento e dell'uccisione dei sacerdoti, delle sopraffazioni quotidiane, dell'interminabile catena di sofferenze e lutti.Padre Raymond ci rivolge un appello accorato: «In fretta. Fate in fretta. Non c'è più tempo. Non dovete tacere. Il mondo deve sapere in quale baratro di violenza sono finiti i cristiani del nostro Paese».



Amal è figlia di un iracheno che al tempo di Saddam era funzionario pubblico. Catturato dalle bande sciite perché ritenuto collaborazionista, il padre è stato incarcerato. Per potergli far visita in prigionia, per molti mesi la figlia ha dovuto subire abusi sessuali da parte dei carcerieri. Donna e per di più cristiana, ha dovuto scegliere tra la propria dignità e la necessità di assistere il padre. Finché non ce l’ha più fatta ed è fuggita, portandosi nel cuore un doppio rimorso.

Bashar, vent’anni, è stato picchiato a sangue per la strada, all’uscita di una chiesa di Baghdad, da un gruppo di fanatici musulmani. Dal pestaggio è uscito gravemente menomato…Oggi è ad Amman, in Giordania, sopravvive con un sussidio della Caritas e non sa cosa aspettarsi dal futuro. Quando lo incontro, insieme con sua madre, il sguardo viene catturato dalla macchina fotografica e non si distoglie per un attimo dall’obbiettivo.

Storie come queste sono raccontate nelle carte raccolte in un plico sulla scrivania di padre Raymond: «Qui ci sono le richieste d’asilo inoltrate all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. In queste pagine è possibile leggere le dimensioni del dramma; storie emblematiche di cosa significa oggi essere cristiani in Iraq».

Padre Raymond Moussalli, vicario del patriarcato caldeo di Baghdad in Giordania, mi riceve al termine della messa quotidiana, nel suo studiolo di Amman, ricavato in un seminterrato di Jebel Luweibeh, nel cuore dell’immensa capitale giordana. Fuori capannelli di persone si fermano a chiacchierare o ad accendere ceri alla Madonna nella cappella ricavata in un garage. Il tema delle conversazioni, tra profughi iracheni, non può essere se non quello delle ultime violenze nella terra d’origine, del rapimento e dell’uccisione dei sacerdoti, delle sopraffazioni quotidiane, dell’interminabile catena di sofferenze e lutti.

«In fretta. Fate in fretta – mi esorta il sacerdote -. Non c’è più tempo. Non dovete tacere. Il mondo deve sapere in quale baratro di violenza sono finiti i cristiani del nostro Paese. Eravamo un milione. Oggi più della metà sono scappati. Molti sono stati uccisi dalle varie bande fondamentaliste prima di riuscire a raggiungere i confini di Siria o Giordania».

Ogni giorno, in questa chiesa di fortuna, arredata in maniera dignitosa e senza fronzoli, si raduna parte del popolo caldeo di Amman. Secondo le stime di padre Raymond, sono almeno 12 mila i fedeli cattolici di rito caldeo presenti in città. Complessivamente i cristiani potrebbero essere 25 mila. Ciascuno ha una sua storia da raccontare, una ferita ancora aperta, un lutto che non riesce a dimenticare. «Le situazioni umane con le quali vengo in contatto ogni giorno sono tra le più drammatiche. Famiglie spezzate, donne e uomini senza speranza, ragazzi privati del loro futuro. Voi cristiani d’Occidente dovere gridare al mondo la nostra condizione, e dovere mobilitarvi per costringere i potenti della terra a prendere misure adeguate per far finire questa catastrofe. L’alternativa è quella di un Iraq senza cristiani».

«Il futuro per noi è un vero incubo – spiega padre Raymond -. Non sappiamo se mai potremo tornare nella nostra terra. Non sappiamo cosa augurarci, ma siamo certi che solo una forte mobilitazione internazionale potrà mettere un argine alla deriva irachena. Gli Stati Uniti apriranno le loro porte ai rifugiati? Per molti di noi non è una soluzione. Un anziano di Mossul, proprio qualche giorno fa ha rifiutato l’asilo. Non posso accettare – mi ha detto – di essere accolto nel Paese che ha deciso di invadere la mia terra».

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