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Nel nome di san Lorenzo

10/04/2007  |  Gerusalemme
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Riprende il nostro viaggio tra i lavoratori filippini in Israele. Incontriamo la coordinatrice della Comunità San Lorenzo Ruiz, uno dei gruppi cattolici organizzati a Gerusalemme nell'intento di offrire assistenza pastorale agli immigrati - in gran parte donne - del lontano arcipelago del Pacifico occidentale. Col suo sorriso aperto, Maria Victoria de La Cruz ci racconta in breve la sua storia personale e l'azione della sua vivace comunità.



A due passi dal municipio di Gerusalemme e quasi di fronte a Porta Nuova, uno dei valichi d’accesso alla città vecchia, sul tetto di un grande edificio sventola la bandiera bianca e gialla del Vaticano. Non siamo alla nunziatura, che si trova a Jaffa (Tel Aviv), e nemmeno nella sede del delegato apostolico, dislocata invece sulle pendici del Monte degli Ulivi. Siamo al Centro Notre Dame, che è casa per corsi e convegni ed elegante struttura di accoglienza per pellegrini. Il Centro è anche un punto di incontro, al quale – proprio per via del proprietario (la Santa Sede) – la gente attribuisce quasi una sorta di extraterritorialità.

Sulla terrazza della caffetteria si incontrano famiglie di militari delle truppe Onu dislocate in Medio Oriente, ecclesiastici di varie parti del mondo in pellegrinaggio o civili arabi ed ebrei che vengono qui a scambiarsi opinioni in santa pace.

La domenica mattina l’androne d’ingresso è particolarmente animato di fedeli che si accingono a partecipare alla Messa in lingua inglese. Vi sono sì turisti e pellegrini, ma il gruppo più consistente è quello dei lavoratori filippini che trascorrono così alcune delle loro 36 ore di riposo settimanale. C’è chi arriva in punta di piedi a rito già iniziato e scappa via appena presa la benedizione, ma un buon gruppo si ferma anche dopo, per prender parte alla catechesi e ai momenti formativi della comunità San Lorenzo Ruiz (il nome è quello del primo filippino ad essere proclamato santo, nel 1987, per essere stato martirizzato nel 1637 in Giappone, dove s’era recato come missionario laico), una delle sei comunità cattoliche filippine organizzate sul territorio di Israele.

Abbiamo incontrato la coordinatrice di questo gruppo, Maria Victoria de La Cruz (50 anni), una signora dal sorriso aperto e accogliente, che ci racconta brevemente la sua storia di emigrata.

«Nelle Filippine ero infermiera, avevo un marito e tre figli. Lavoravo come caposala in un ospedale, ma quando sono rimasta vedova, con tre bambini da tirare grandi non ho potuto fare a meno di cercare lavoro all’estero. Nel luglio 1991 sono partita per il Kuwait e ho trovato un posto al Jahara Hospital nell’area che Saddam Hussein aveva reclamato come provincia irachena. Guadagnavo 1.000 dollari al mese e avevo vitto e alloggio gratuiti. In patria avrei dovuto lavorare tre mesi per guadagnare la stessa cifra».

«Quando, a 34 anni, ho lasciato il mio Paese – dice Victoria – ho affidato i bambini ai miei genitori, che li hanno cresciuti. All’inizio è stata molto dura. Sono partita che la figlia più piccola aveva un anno, la seconda sette e il primo nove. Li pensavo continuamente e credevo di impazzire. Chiamavo a casa una volta alla settimana per chiedere loro notizie e regolarmente piangevo al telefono con i miei genitori. Ogni volta che tornavo a casa vedevo i ragazzi più cresciuti e con caratteristiche diverse da quelle che avrei voluto per loro se avessi potuto essere io ad educarli. Purtroppo sono prezzi da pagare».

In Kuwait Victoria ha conosciuto un diplomatico finlandese che ha sposato, con rito civile, nel 1997. Da allora è la signora Pöppönen, ed è proprio per questo che si trova in Israele, dove il marito è stato trasferito nell’ambito di una missione delle Nazioni Unite. In quanto consorte di un diplomatico, Victoria è oggi in una posizione di privilegio rispetto a tante altre sue amiche della comunità, costrette a lavorare duramente e magari in condizione di clandestinità.

Non essendo sposata in chiesa, Maria Victoria ha il cruccio di non poter ricevere la comunione. Il marito è di religione ortodossa e solo di recente lei ha scoperto, da un prete esperto di diritto canonico, che la conversione del marito non è condizione necessaria perché i due si sposino in chiesa. Lei, in ogni caso, non vuole che il suo uomo si converta al cattolicesimo se non per una convinzione profonda a personale.

«Già da tempo – racconta Victoria – partecipo alla Messa qui al Centro Notre Dame, ma i primi tempi scappavo via subito. Poi ho cominciato a fermarmi e a familiarizzare con le altre filippine presenti, che nel marzo 2006 mi hanno eletta coordinatrice della Comunità San Lorenzo Ruiz. Tra noi ci siamo divise le responsabilità: abbiamo le figure del coordinatore e del suo vice, del tesoriere, del segretario col suo assistente, del ministro della liturgia e di quello per le questioni sociali. La comunità svolge soprattutto attività di carattere pastorale. Facciamo catechesi, studiamo la Bibbia, proponiamo ritiri spirituali, a volte filmati a carattere religioso. Ci assistono tre suore filippine della congregazione di Saint Paul de Chartres. Noi responsabili, insieme con loro, ci riuniamo una volta al mese, mentre ogni tre mesi proponiamo un’assemblea generale di tutti i membri. Per i casi di emergenza, che richiedono concreti gesti di solidarietà, facciamo ricorso a una cassa comune, alimentata dalle nostre offerte».

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