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Amos torna a casa

Paola Rampoldi
26 febbraio 2007
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Amos torna a casa

Con il suo recentissimo News from Home / News from House Amos Gitai offre al pubblico l'ultima parte di una trilogia di film documentari che hanno per fulcro una casa di Gerusalemme. A trilogia completata anche l'obbiettivo del regista diventa ancora più palese: evidenziare, attraverso le diverse famiglie, i cambiamenti storici, ma soprattutto sociali, avvenuti nel corso del tempo. Come farebbe un archeologo, Gitai ispeziona il tessuto umano e ce lo restituisce sotto forma di opera d'arte.


A ventisei anni da House, del 1980, e a quattordici da House in Jerusalem del 1998, Amos Gitai ha da poco offerto al pubblico il suo News from Home / News from House, terza e conclusiva parte di una trilogia di documentari.

Come per i due film precedenti, fulcro attorno al quale ruota la narrazione è una casa di Gerusalemme, che nel tempo vede alternare i suoi abitanti. Inizialmente, fino al 1948, padrona di casa è la famiglia palestinese Dajaini, mentre da diversi anni è di proprietà di cittadini israeliani.

A trilogia completata anche l’obbiettivo del regista diventa ancora più palese: evidenziare, attraverso le diverse famiglie, i cambiamenti storici, ma soprattutto sociali, avvenuti nel corso del tempo.

Come farebbe un archeologo, Gitai ispeziona il tessuto umano e ce lo restituisce sotto forma di opera d’arte.

La casa diventa dunque elemento dall’elevato contenuto simbolico, elemento che allo stesso tempo unisce e divide le parti contrapposte.

Il film, girato tra Israele, Francia e Belgio, attesta ulteriormente le doti documentaristiche del regista, il quale sottolinea che ciò che più importa per lui è rappresentare la realtà in tutte le sue contraddizioni, senza partire da un preciso punto di vista. «Costruisco la regia ma le riprese partono proprio quando questa è come se mi sfuggisse di mano, anche se la cosa potrebbe sembrare una contraddizione». E, al termine della proiezione, durante il Festival del Cinema Indipendente di Roma, ha infatti affermato di voler far comprendere a chi non conosce la situazione mediorientale, quanto sia complessa l’esistenza in quei luoghi e quanto dannoso sia emettere verdetti approssimativi e semplicistici.

Il tono dunque, dell’intera trilogia, non è di denuncia, ma poetico. Con la macchina da presa, Gitai percorre villaggi e case di Gerusalemme, sentieri e ville silenziose, alla ricerca del mistero che lega palestinesi e israeliani alla loro terra.

In un’intervista ha tenuto a sottolineare: «Per me è importante presentare l’essere umano, che è contraddittorio».

Il film è già stato presentato al Festival del cinema indipendente di Roma, all’International Film Festival di Berlino e verrà proposto a La Rochelle Film Festival di quest’anno.

Quale filo conduttore di tutta l’opera di Gitai, la narrazione poetica, è elemento fondamentale della sua intera produzione, che spazia da Kadosh del 1994, a Kedma del 2002, a Terra Promessa del 2004, fino ad arrivare al suo ultimo film, Free Zone, del 2005.

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