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Nel Kibbutz Sasa, sotto i razzi degli Hezbollah

21/07/2006  |  Israele, Alta Galilea
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Dal Kibbutz Sasa, sottoposto negli scorsi giorni ai bombardamenti dei Katiuscia degli Hezbollah, il racconto e le riflessioni di una donna di pace che si trova coinvolta in una guerra non voluta.


L’autrice di questo testo è una ebrea di origine italiana che vive in Alta Galilea, in uno dei villaggi sottoposti agli attacchi missilistici degli Hezbollah. Educatrice e regista teatrale, è fondatrice del Teatro dell’Arcobaleno, una compagnia teatrale composta da giovanissimi ebrei e arabi.

Sono appena dall’Italia da un viaggio a San Marino e in Toscana con 18 ragazzi israeliani feriti negli ultimi attentati. Un viaggio difficile e magico tra boschi e piazze con ragazzi induriti dalla paura e dalla mancanza di speranza. Al check-in dell’areoporto di Verona, una telefonata da Israele: «Mamma, non preoccuparti, tutto a posto! Stiamo tutti bene!». È mio figlio Yotam, comandante nell’esercito. «Ma che stai dicendo? Che succede?» rispondo subito agitata. «Non hai sentito nulla? Hanno rapito due nostri ragazzi… ne hanno uccisi sette… qui vicino… ti ho telefonato perché temevo che sentissi le notizie prima della mia voce». Il cuore comincia a battere. Passiamo i controlli. La testa è in subbuglio come un vulcano. I volti dei passeggeri sull’aereo della Israir sono tesi: «C’e tensione in Israele… dalle vostre parti», mi dice qualcuno.

Abito al Kibbutz Sasa, in Galilea, a 900 metri d’altezza. Dalla mia casa si vede il Libano e se si sale su in cima si vede anche la Siria. All’arrivo tutti mi consigliano di restare a Tel Aviv ma io ho un figlio sul confine. Sento che devo andare. Eppoi la mia casa è là. Dopo due giorni prendo le mie cose e me ne vengo in Galilea!
Per la strada mando un sms dopo l’altro a Yotam. Finalmente dopo il quarto tentativo mi risponde. Da 35 giorni non è più andato a casa. «Ma come fai a cambiarti, a lavarti?». «Mamma, fossero questi tutti i nostri problemi! Non preoccuparti! Se volete potete venire a salutarmi per cinque minuti». Non ce lo facciamo ripetere, ci fermiamo a comprare qualche bottiglia di succhi di frutta e nel villaggio druso di Horfeish e compriamo le sambusak, delle pagnottelle con formaggi e aromi tipici orientali. Ci sono una ventina di ragazzi con lui… le compriamo per tutti.

Quando arriviamo è buio. L’abbraccio è lunghissimo e lui, con la sua solita calma ci racconta le vicende terribili degli ultimi giorni: gli Hezbollah hanno intrapreso un guerriglia senza pietà. Ci sono trappole dappertutto ma tutti i ragazzi sono pronti a difendere la propria casa in Galilea, a Haifa, ad Afula e se ce ne sarà bisogno a Tel Aviv. Tra i soldati ci sono ragazzi che vengono dall’America, da diverse parti del mondo. I genitori sono preoccupati. Hanno chiesto loro di tornare. Sono ragazzi di 18, 20 anni, dilaniati tra il senso della responsabilità per questo Paese che ha bisogno di ognuno di noi e l’affetto verso i propri cari. Lo salutiamo e nel sacchetto dei sambusak ci mettiamo due vasetti di pesto genovese appena arrivati dall’Italia. Gli occhi gli brillano nel buio!
Quando arriviamo al kibbutz è tutto deserto. Entriamo nel rifugio davanti a casa nostra, l’unico posto dove c’è una luce, all’interno ci sono più di 50 persone. Alcuni ragazzi giocano a Risico, altri vedono la televisione, alcuni siedono in silenzio, gli occhi cerchiati: «Ma perché non sei rimasta a Tel Aviv? Perché, non sei rimasta in Italia?». Sorrido perché ancora non mi rendo conto. Verso le 21,00 iniziano i bombardamenti. Dalle due parti. La testa sembra scoppiare. Non c’è un bambino in giro. Sono stati invitati tutti in un kibbutz vicino a Gerusalemme, stavolta sono loro del sud ad accogliere noi e ad aiutare. Continua cosi per tutta la notte. Il responsabile della sicurezza avverte che si deve dormire nei rifugi anche se le nostre case sono fortificate.

Ci risiamo. Siamo di nuovo in guerra. Un’altra di quelle guerre che non vogliamo, che non abbiamo cercato, che non abbiamo provocato. È luglio. Siamo già pronti per cogliere le mele, i kiwi, qui, nei nostri frutteti sul confine con il Libano. Siamo pronti a dare lavoro a chi vorrà aiutarci, siamo pronti ad aiutare a costruire case, qui, sul confine con il Libano e su tutti gli altri confini… E allora, e allora Santo Cielo… perché entrare, scavalcare il recinto e ucciderci a tradimento, a sangue freddo sette padri di famiglia che erano stati richiamati nell’esercito perché siamo cosi pochi che da noi oltre a tre anni di militare obbligatorio si richiamano anche le riserve? Perché rapire due innocenti e far sparire le loro tracce? Perché non impegnarsi a costruire invece di distruggere tutto? Perché i capi dei popoli che ci circondano non aiutano la loro gente a vivere una vita tranquilla, a costruirsi un Paese tranquillo. Perché, come dice il capo degli Hezbollah Nasrallah, amano la morte più di quel che noi comuni creature di Dio amiamo la vita?
Prepariamoci a un’altra notte.

 

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