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Capodanno insanguinato a Tel Aviv e minoranza araba in Israele

Giampiero Sandionigi
21 gennaio 2016
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Capodanno insanguinato a Tel Aviv e minoranza araba in Israele
Studenti arabo-israeliani a lezione in aula computer. (foto Moshe Shai/Flash90)

La nuova ondata di violenze in Terra Santa riporta alla ribalta la questione della difficoltà di rapporti tra la maggioranza ebraica e la minoranza araba anche all'interno dello Stato di Israele.


In Terra Santa le cronache continuano a riportare, anche nelle ultime settimane, notizie di nuovi attacchi ad ebrei da parte di palestinesi che, a loro volta, vengono rapidamente «neutralizzati», con la morte (il più delle volte) o con gli arresti, dagli apparati di sicurezza israeliani.

Nella maggior parte dei casi ad entrare in azione sono state persone – maschi e femmine, generalmente giovani – provenienti dai Territori palestinesi della Cisgiordania o da Gerusalemme Est. Diverso il caso di Nashat Melhem, che ha scelto di macchiare di sangue il primo giorno del 2016 a Tel Aviv: con brevi raffiche di mitra ha sparato sugli avventori di un bar e sui passanti. Due sono morti, altri sono rimasti feriti, lui è fuggito, uccidendo anche il tassista beduino dal quale si era fatto accompagnare fino alla periferia nord della città. Per sette giorni l’uomo è riuscito a sottrarsi alla caccia della polizia, che infine lo ha individuato e ucciso nella cittadina di Arara, in Galilea, dov’era nato e cresciuto.

La vicenda di questo trentenne ha messo a nudo qualche inadeguatezza dei pur rodati servizi di intelligence israeliani, ma soprattutto ha riacceso il dibattito sul grado di affidabilità e lealtà della componente araba palestinese che è titolare di passaporto israeliano e vive entro i confini dello Stato ebraico. Una minoranza consistente, pari a oltre un quinto della popolazione, che però non può fare a meno di sentirsi solidale con i palestinesi che vivono – in condizioni assai più precarie – fuori da Israele e che perciò è considerata con sospetto e diffidenza da buona parte degli israeliani ebrei.

Di fatto gli arabi in Israele, soprattutto se musulmani, non prendono parte pienamente alle vicende della nazione sionista. In genere i loro giovani non prestano il servizio militare sotto i vessilli con la stella di Davide e hanno (anche per questo) più difficile accesso ad alcune professioni. Le differenze di trattamento sono evidenti in molti aspetti della vita quotidiana: dai controlli di sicurezza aeroportuali, fino all’accesso alla casa e a un buon livello d’istruzione.

Uno stato di cose che il governo Netanyahu ha di fatto riconosciuto, ripromettendosi di correggerla con l’approvazione, a fine 2015, di un piano quinquennale di sviluppo in favore delle minoranze. Sono stati stanziati 15 miliardi di shekel (pari a 3 miliardi e 460 milioni di euro). Una speciale commissione è incaricata di mettere a punto i criteri per ripartire gli stanziamenti. Dovrebbero beneficiarne essenzialmente le piccole municipalità con almeno l’80 per cento di popolazione araba. Si interverrà nei settori del trasporto pubblico, dell’istruzione, della sanità pubblica e dell’edilizia. Il governo spingerà per un maggior controllo del territorio e della legalità: insieme alle nuove case sorgeranno nuove stazioni di polizia e si dovrà contrastare l’abusivismo edilizio (spesso generato dall’esiguità del territorio disponibile o dalla difficoltà di conseguire le licenze edilizie).

Appare evidente la necessità, nell’interesse di tutti, di non lasciare in condizioni di svantaggio una fetta tanto consistente della popolazione. Per non creare scompensi intollerabili per gli equilibri economici interni, oltre che per ragioni di giustizia.

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