Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia
Oltre ottanta persone di ogni età in pellegrinaggio insieme in Terra Santa, la scorsa estate. Un'esperienza speciale, vissuta in famiglia, raccontata dal suo ideatore, un sacerdote e biblista veronese.

Noi della tribù di Gesù

Martino Signoretto
8 ottobre 2010
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Noi della tribù di Gesù
Due ragazzi della «tribù di Gesù» sulle pendici del Monte degli Ulivi. Sullo sfondo il centro storico di Gerusalemme.

Deserto, giardino e città. Da anni assieme ai giovani della diocesi di Verona seguiamo l’itinerario disegnato da queste tre parole, per impostare un pellegrinaggio in Terra Santa di almeno 15 giorni. Il pellegrinaggio inizia dalla, sulla e con la terra, primo e vero santuario. La prima tappa è il deserto, partire cioè dall’Antico Testamento per conoscere il Padre provvido proprio dove non c’è acqua, dove non c’è vita. Poi si arriva al giardino, la Galilea, il luogo dove incontri Gesù e la sua famiglia; infine si giunge nella città santa ed esplode lo Spirito Santo, nell’insieme delle Chiese cristiane, nello spirito delle grandi religioni rivelate. Itineranti e oranti, sempre con la Bibbia in mano, e il coraggio di ripartire da un luogo per avvicinarsi alla città santa, Gerusalemme. Con i giovani questo si fa, non è un problema, non manca l’attrezzatura, non mancano i contenuti, i sussidi… Ma con le famiglie?

Bisognava pensare come mettere insieme tutto questo per una «tribù» di 85 persone, provenienti da più parrocchie: tre preti, molte coppie sui 40/60 anni, alcune famiglie con bambini dagli 8 ai 12 anni, alcune coppie oltre i 60 anni e alcuni figli tra i 15 e 21 anni; cinque animatori che già avevano sperimentato l’itinerario per seguire i giovani e i bambini in percorsi specifici nei Luoghi Santi.

Il mix c’era, ma era una miscela esplosiva: i bambini dovevano seguire i genitori, voglia o no. I giovani si sentivano un poco «costretti». Lo stile era molto chiaro: la maggioranza delle colazioni, dei pranzi e delle cene sono state in autogestione; l’abbigliamento doveva essere razionalizzato, quindi ogni tanto si dovevano lavare i propri indumenti; per il sonno, tende beduine, oppure all’aperto, come sulle rive del lago di Tiberiade, presso la chiesa del Primato; le case di accoglienza avevano stanze molto grandi. Cosa importante, assicurare bagni e docce tutti i giorni. 

Prima di tutto abbiamo voluto evitare il tipico viaggio divisi per età: il viaggio dei pensionati; il viaggio delle coppie, il viaggio dei giovani. Più si legge la Bibbia e più si scopre che si affrontano storie famigliari. Perché allora non pensare ad un viaggio così come siamo nelle nostre case: con il nonno, i bambini con i loro genitori, tutti assieme. Per noi preti questo salto non è facile. Ma è importante farlo: guardare ciascuno in relazione alla propria famiglia, come siamo a casa, un gruppo di generazioni ed età diverse che cammina assieme.

Non volevamo rinunciare alla tribù: tutti avevano un compito, tutti erano corresponsabili.

Abbiamo voluto evitare il viaggio con le comodità tipiche del turista, tipiche dell’Occidente. Il messaggio del pellegrinaggio passa se si è assieme, se emergono problemi pratici e si affrontano proprio come comunità itinerante; se si condivide la prossimità, se si parte assieme con chi è lento e con chi è veloce, se il disagio di uno diventa condiviso con altri, se si assapora il gusto della terra, del cielo, delle acque, e se poi proprio questo contatto a cinque sensi con la terra, diventa preghiera. Così doveva essere, tentando di restare fedeli allo stile biblico: itineranti e oranti, ecco il nostro stile.

L’itinerario biblico è stato pensato in funzione della coppia e della famiglia. Questo passaggio è stato fondamentale, anzi inevitabile: è stato qualcosa di biblico. Non c’erano brani nell’Antico Testamento che non rimandassero a questioni famigliari: l’episodio di Agar di Genesi 16 e Genesi 21, commentato presso una delle fonti del deserto del Negev, precisamente ad Ein Avdat, aveva dato il tono biblico del viaggio. Agar era una madre, una madre abbandonata con un figlio abbandonato e Dio si è preso cura di lei e del figlio. Così il Gesù di Nazaret e di Galilea ci rimandava alla sua famiglia di origine.

La piccola Nazaret e la grande Sefforis (distano solo 7 chilometri), antica capitale della Galilea ai tempi di Gesù, ci hanno aiutato a riflettere su Maria, Giuseppe e il fanciullo Gesù, la loro frequentazione in quelle terre, il confronto quotidiano con il mondo pagano e altre etnie. Le grotte di Nazaret, la fonte di Maria, il forno per il pane che abbiamo visto presso il museo dell’annunciazione, la vivacità della città di Sefforis, pur non essendo citata nel Nuovo Testamento, sono stati elementi che hanno ricostruito nella nostra fantasia una «composizione di luogo» più vicina ad un tempo remoto, per cogliere la normalità come luogo privilegiato dell’agire di Dio.

Anche le scelte di Gesù sono state una scuola. Gesù ha lasciato Nazaret e si è trasferito a Cafarnao «la sua città» (Mt 9,1): Gesù ha maturato e poi annunciato una forma di relazione intima con il Padre celeste e di familiarità con gli uomini e le donne che incontrava, illuminante per la nostra tribù e che porta un nome: «regno dei cieli». Gesù annuncia il regno dei cieli proprio in un mondo gravido di lutti, a vedove, a orfani, a uomini posseduti da spiriti impuri, pagani, a malati esclusi dalle loro famiglie, a poveri che si sentivano condannati da Dio stesso per la loro indigenza. Gesù, in fondo un «orfano», ha fatto questo percorso per ricucire la trama delle appartenenze familiari, tribali dove nessuno è abbandonato, nessuno è orfano, nessuno è un problema, nessuno è escluso. Per Gesù non esistono più orfani e abbandonati, non esistono più gli «esclusi», esistono solo figli; figli di Dio e fratelli.

Prima della partenza, sono state previste tre domeniche pomeriggio di preparazione, non solo per mettere a fuoco le questioni organizzative, ma per iniziare ad entrare nel metodo archeologico e biblico, entrare nello stile del pellegrinaggio, per conoscersi e imparare a pregare assieme. Un incontro è stato dedicato alla questione Israele/Palestina; un altro sul senso del pellegrinaggio e all’uso della Bibbia; l’ultimo alla geografia e l’archeologia. Sono stati consigliati dei film per poter avere un arricchimento da diversi punti di vista. Il gruppo è partito più consapevole e con un minimo di informazioni.

Ciascuno aveva la Bibbia e un quaderno ad anelli preparato, con i canti, molte mappe didascaliche, spiegazioni e fogli per prendere appunti. Si pregava sempre con la Bibbia: Salmi, letture specifiche, riferimenti, ecc. erano presi dalla Bibbia. La Bibbia faceva da riferimento nei luoghi, la si doveva avere nello zaino, la si apriva dovunque, presso i siti come nei percorsi del deserto, anche quando si concedevano i momenti di meditazione e silenzio.

Il pellegrinaggio è riuscito grazie anche a cinque giovani animatori, che già erano stati in Terra Santa con questo stile «itinerante e orante». Con loro è stato preparato e adattato il programma a misura dei ragazzi con qualche mese d’anticipo. In questo modo i ragazzi facevano le stesse attività dei genitori, ma appropriate alla loro età, e i genitori, senza il pensiero di accudirli, potevano prendersi a cuore il cammino che stavano facendo. Poi nella condivisione, nelle celebrazioni, i bambini e i ragazzi riportavano ai genitori quello che avevano fatto. E ci incantavano.

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