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Chi si fa volontariamente «prigioniero», spogliandosi della propria libertà e consegnando la propria vita nelle mani dei superiori, intraprende, per san Francesco, una via di perfezione.

Obbedienza come ascesi

padre Giorgio Vigna ofm
3 agosto 2010
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Obbedienza come ascesi
Colantonio, Consegna della regola francescana (particolare), Museo di Capodimonte, Napoli

Francesco dedica più della metà del suo Testamento alla rievocazione di alcuni episodi della vita personale e della primitiva Fraternità: dall’incontro col lebbroso al saluto della pace la storia è da lui rivisitata all’insegna del dono di Colui che è «il sommo bene, eterno, dal quale proviene ogni bene e senza il quale non esiste alcun bene» (Parafrasi del Padre nostro 2 /FF 267; cfr Regola non bollata XXIII,9 /FF 70). Se la vita, e la storia che vi si dipana, è dono, allora essa chiede di essere accolta con il cuore e la mano del mendicante: «Restituiamo al Signore Dio altissimo e sommo tutti i beni e riconosciamo che tutti i beni sono suoi e di tutti rendiamogli grazie, perché procedono tutti da Lui. E lo stesso altissimo e sommo, solo vero Dio abbia, e gli siano resi ed Egli stesso riceva tutti gli onori e la reverenza, tutte le lodi e tutte le benedizioni, ogni rendimento di grazia e ogni gloria, poiché suo è ogni bene ed Egli solo è buono» (Regola non bollata XVII,17 /FF 49).

Se la prima parte del Testamento è rievocativa ed è percorsa trasversalmente dal senso del dono, il cui soggetto grammaticale o logico è Dio, la seconda parte (vv. 27-39 /FF 124-130), più breve, è diversamente caratterizzata. Scomparso lo stile rievocativo, subentra quello precettivo/normativo, riconoscibile dal vocabolario tipico di questa parte, incentrato su due concetti tra loro collegati: il concetto dell’obbedienza e il concetto dell’autorità.

Francesco avvia la sezione precettiva/normativa riferendo a se stesso il primo richiamo, servendosi di espressioni forti: «Voglio fermamente obbedire [al ministro generale]», «voglio essere prigioniero [nelle mani del ministro generale], egli è il mio signore» (vv. 27-28 /FF 124). Tale richiamo si trova in perfetta coerenza con ciò che Francesco scrive nella Regola bollata: «Tutti i frati siano tenuti ad avere sempre uno dei frati di questa Religione come ministro generale e servo di tutta la fraternità e siano tenuti fermamente ad obbedirgli» (VIII,1 /FF 96).

Oltre a questa ragione «formale», Francesco ne aggiunge una ascetica, per l’uomo che si fa volontariamente «prigioniero», spogliandosi evangelicamente anche della propria libertà: «Dice il Signore nel Vangelo: “chi non avrà rinunciato a tutto ciò che possiede non può essere mio discepolo”, e “Chi vorrà salvare la sua anima, la perderà”. Abbandona tutto quello che possiede e perde il suo corpo colui che offre tutto se stesso all’obbedienza nelle mani del suo prelato» (Ammonizione III,1-3 /FF 148).

Il secondo richiamo di Francesco – rivolto prima a sé e poi ai frati – all’obbedienza ha come oggetto la preghiera dell’«ufficio secondo la Regola» (vv. 29-33 /FF 125-126). Se in questo caso è esplicito il riferimento alla Regola bollata: «I chierici dicano il divino ufficio secondo il rito della santa Chiesa romana» (I,1 /FF 82), e la cui osservanza è ben attestata nelle fonti biografiche (per es. Tommaso da Celano, Vita seconda 96 /FF 683; Specchio di perfezione 94 /FF 1792), colpisce comunque l’ampiezza del richiamo.

Nel suo sfondo si colloca sicuramente il riconoscimento del valore teologico della preghiera liturgica (in quanto luogo privilegiato del culto di lode e di ringraziamento) e del suo valore formativo (in quanto luogo di ascolto del patrimonio biblico e patristico). È tuttavia presente anche un aspetto chiaramente giuridico: la recita dell’ufficio divino era una norma valevole per tutti i chierici della Chiesa, e l’assunzione di tale norma è il segno distintivo della cattolicità dei frati minori, a fronte dei tanti gruppi evangelici del tempo, la cui ecclesialità era dubbia: «Perciò prego in tutti modi frate H. [Elia], ministro generale, mio signore, che faccia osservare da tutti inviolabilmente la Regola, e che i chierici dicano l’ufficio con devozione davanti a Dio (…) Quei frati, poi, che non vorranno osservare queste cose, non li ritengo cattolici, né miei frati; inoltre, non li voglio vedere né parlare con loro, finché non abbiano fatto penitenza» (Lettera a tutto l’Ordine 40-41.44-45 /FF 227-229).

«La presa di distanza di frate Francesco dai movimenti ereticali (…) si radica nella sua fede vivissima nel mistero di salvezza affidato da Cristo Signore alla sua Chiesa, come il Testamento non si stanca di ripetere, dalla prima all’ultima parola» (C. Paolazzi).

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