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Il pianto e la beatitudine

fra Matteo Brena ofm
27 febbraio 2023
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Il pianto e la beatitudine
Dominus flevit, la chiesetta che sorge sulle pendici del Monte degli Ulivi a Gerusalemme. (foto Aleksandar Todorovic/Shutterstock.com)

Le lacrime possono diventare inizio di una ricerca di senso. Nessuno può risolvere il problema della sofferenza, ma Gesù non ha mai insegnato la rassegnazione e ci indica vie di consolazione percorribili, con Dio e con gli altri.


Nella Bibbia il pianto è un linguaggio molto presente, soprattutto nei salmi, dove le lacrime appaiono come il segno della condizione del giusto che soffre. Il pianto quindi nell’Antico Testamento può avere due significati: il primo è per la morte o per la sofferenza di qualcuno, il secondo sono le lacrime del peccatore che sente l’afflizione nel cuore per il dolore di avere offeso Dio e il prossimo.

Il messaggio delle beatitudini che incontriamo nei vangeli di Matteo e Luca parla di un Dio che è vicino a coloro che soffrono e non manca di intervenire per liberarli dalle loro condizioni avverse. È un messaggio paradossale e rivoluzionario: le persone sconfitte secondo la misura del mondo vengono considerate da Gesù di Nazaret come i veri vincitori.

Questo annuncio, che non si pone come una serie di nuovi comandamenti, ogni volta che lo ascoltiamo esercita su di noi un grande fascino, ma allo stesso tempo si scontra con la nostra realtà e la nostra razionalità. In particolare, la seconda beatitudine, la quale afferma che quelli che sono nel pianto possono essere considerati «beati», perché saranno consolati (Vangelo di Matteo, capitolo 5, versetto 4).

Queste parole sono parte di quella che viene considerata la Magna charta del cristianesimo. Interpellano però ogni uomo, credente e non credente, che inevitabilmente nella sua esistenza conosce il pianto. Nella lingua originaria in cui è scritto il Vangelo, ovvero il greco, questa beatitudine viene espressa con un verbo che indica coloro che «si affliggono», quelli che piangono dall’interno.

Nella spiritualità cristiana dei padri del deserto, questo atteggiamento era definito come un dolore interiore che apre a una relazione con il Signore e con il prossimo. Questa visione presenta la sofferenza, il pianto, come una via di comunione. Ed è questa la sfida proposta nella spiritualità cristiana che viene abbracciata da san Francesco di Assisi, ma che può però essere colta come possibilità ragionevole e umana anche da chi non è credente. Gesù vede e annuncia tutto questo, andando aldilà della realtà negativa e proclamando nei suoi discorsi una visione di felicità allo stesso tempo affascinante, sconvolgente e capace di consolazione. Nei suoi molti incontri con i sofferenti Gesù vuole far capire che ciò che salva non è la sofferenza, ma l’amore. Per questo motivo non ha mai predicato la rassegnazione e non ha mai invitato ad atteggiamenti fatalistici o segnati dal dolore.

Nei vangeli a coloro che incontrano il Figlio dell’Uomo non è mai chiesto di offrire la sofferenza a Dio e non è mai detto che più si soffre più si è vicini a Dio, ma viene indicata una via di comunione che può partire anche dall’umanità ferita o da una domanda di senso della sofferenza. Le lacrime, quindi, possono diventare via di purificazione, punto di partenza per una rinnovata ricerca di senso e ci chiedono di accogliere la proposta di essere come colui che ama e accetta di essere amato.

Papa Francesco, in un suo viaggio apostolico nelle Filippine nel 2015, spiegò così le lacrime di Gesù: «Solo quando Cristo ha pianto ed è stato capace di piangere, ha capito i nostri drammi, perché certe realtà si vedono solo con gli occhi puliti dalle lacrime». Sul Monte degli Ulivi il pellegrino incontra due santuari che parlano del pianto di Gesù. Il primo è presso la tomba di Lazzaro a Betania, a oriente, dove il monte degrada verso il deserto di Giuda. Il secondo è il Dominus Flevit, santuario a forma di lacrima progettato dall’architetto Antonio Barluzzi negli anni Cinquanta, sui resti di una chiesa bizantina del V secolo. La chiesa che si affaccia su Gerusalemme è il punto dal quale sin dall’inizio i pellegrini si recavano e ricordavano lo sguardo di Gesù sulla città e il suo pianto sopra di essa. Per Gesù il pianto, senza vergogna, è stato il modo per entrare in una comunicazione più profonda con Dio e la realtà ed è diventato la via maestra per rivelare il cuore di Dio e il suo amore che ha avuto il suo culmine sulla croce.

A chi abbraccia questa visione si apre non solo la condizione del «beato», ma anche l’orizzonte della dimensione missionaria. Nella nostra quotidianità infatti ci sono afflitti da consolare, ma anche gente che ha bisogno di qualcuno che le insegni a commuoversi di fronte al dolore altrui, a sciogliere il cuore indurito e a piangere.

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