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Israele 60 anni dopo

Carlo Giorgi
8 maggio 2008
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Israele 60 anni dopo

A maggio lo Stato di Israele compie sessant'anni, un anniversario che sarà celebrato con solennità anche se il Paese vive da decenni una soffocante assenza di pace. Cosa riserverà il futuro? L'abbiamo chiesto a quattro personalità di primo piano.


È il 29 novembre 1947 quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adotta una risoluzione per dividere la Palestina sotto mandato britannico in due Stati, uno arabo e uno ebraico, legati da un’unione economica. «Io ero a Tel Aviv quella notte – ricorda Nathan Ben Horin, ambasciatore ed ex-rappresentante di Israele presso la Santa Sede -: mi ricordo come fosse ieri gli altoparlanti che annunciavano la decisione delle Nazioni Unite, l’entusiasmo della gente che ballava per le strade e si abbracciava… Nello stesso giorno purtroppo ci furono le nostre prime vittime. Abbiamo avuto sessant’anni di guerra – commenta amaramente l’ambasciatore-. Una guerra fratricida assurda perché in fin dei conti i nostri due popoli rimarranno sulla stessa terra, uno accanto all’altro; e nessuno al posto dell’altro».

Per l’anniversario sono previste legittime celebrazioni. Ma, terminata la festa, quale futuro immaginare per lo Stato di Israele? Quale equilibrio con gli stati vicini? Su quali valori condivisi i suoi cittadini potranno continuare a costruire uno Stato democratico? Abbiamo posto il quesito ad alcuni intellettuali ebrei e politici israeliani. Oltre all’ambasciatore Ben Horin, che ha vissuto sulla propria pelle tutta la storia dello Stato d’Israele, Giorgio Sacerdoti, professore di Diritto internazionale dell’Università Bocconi di Milano e presidente dell’Organo di appello dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc); Sergio Della Pergola, tra i massimi studiosi di demografia israeliani; e Ibrahim Sarsur, deputato alla Knesset (il parlamento) e uno dei rappresentanti della minoranza araba di cittadini che vivono in Israele.

Il sogno che abita nel cuore di Israele è – di certo e da sempre – quello della pace. Nella dichiarazione di indipendenza del 14 maggio 1948 i padri fondatori scrivono: «Lo Stato d’Israele (…) incrementerà lo sviluppo del Paese per il bene di tutti i suoi abitanti, sarà fondato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace come predetto dai profeti». E gli intellettuali di oggi sognano ancora come i profeti di un tempo: se ci fosse la pace, dicono gli intervistati, sarebbe possibile immaginare un mercato unico tra i Paesi del Medio Oriente che rilanci lo sviluppo della regione, collaborazione tecnologica tra i governi dell’area; università israeliane aperte alla formazione di studenti arabi dei Paesi vicini e viceversa. E Israele, Stato democratico e laico, potrebbe svolgere il compito strategico di contaminare culturalmente le nazioni arabe circostanti.

Ma questo futuro sembra irrimediabilmente lontano. «Ha visto cosa succede? Il continuo lancio di missili sulla città di Sderot e su altre località del Negev? – si dispera l’ambasciatore Ben Horin, nei giorni dell’ultima sanguinosa incursione israeliana di Gaza -; è il rifiuto di riconoscere il legame millenario del popolo ebraico con la sua terra d’origine. Questo ha provocato una catena di guerre, di terrorismo, di ritorsioni, con decine di migliaia di morti».

«La conflittualità che si vive da noi è uno stillicidio quotidiano che in Europa non riuscite a percepire», racconta il professor Della Pergola raggiunto per telefono in una Gerusalemme battuta da un’insolita bufera di neve. «Arrivare a un accordo per spartire la terra è necessario, anche a costo di dolorose rinunce. Ci vuole realismo politico e reclamare tutto è impossibile, per entrambi».

Di fatto la sopravvivenza di Israele è minata da due diversi fronti di problemi. Il primo «esterno» allo Stato; ed il secondo «interno». Il fronte «esterno» è quello più noto: è la linea di crisi nata con l’ingresso, 60 anni fa, del nuovo Stato di Israele nell’equilibrio mediorientale e, oggi, alimentata dall’ostinazione di Iran, Siria e di alcuni movimenti fondamentalisti arabi a non riconoscere il diritto a Israele ad esistere. È la guerra disperata dei kamikaze palestinesi ma anche delle cieche occupazioni dei coloni israeliani. Dei missili Qassam e delle devastanti risposte dell’aviazione e dei carri armati con la stella di Davide. è la spirale di violenza nella quale ciascuno ha una parte di responsabilità e che rende inadeguati tutti i percorsi di pace intrapresi: «Annapolis? Là non è successo niente – commenta sfiduciato Giorgio Sacerdoti, a proposito dell’ultima conferenza di pace negli Usa -. È stata solo l’occasione per il presidente americano di farsi bello. Le cose andranno peggio».

La pace è lontana. Ma Israele, per rendere solido il proprio futuro, deve pensare anche agli equilibri interni allo Stato, che conservano alcuni punti di fragilità.

Israele, ad esempio, è tra i pochissimi Stati al mondo a non avere ancora una Costituzione. La legge fondamentale dello Stato, quella nel cui primo articolo sono inscritti i valori condivisi da tutti i cittadini, garanzia e riferimento per la convivenza, non c’è. Scriverla potrebbe aiutare? Potrebbe essere il cemento per unire cittadini agli antipodi, come ortodossi e laici, ebrei ed arabi israeliani, coloni della prima ora e nuovi emigrati dell’Est europeo?

«Esiste una commissione parlamentare che sta studiando la costituzione – racconta Sergio Della Pergola -. Ma la costituzione è la soluzione? Sono perplesso. In Gran Bretagna non esiste una costituzione scritta; ed è la prova che uno Stato può essere democratico anche senza. Abbiamo un corpo di leggi dal valore costituzionale, ma quello che manca è l’articolo uno o il cosiddetto preambolo. Che è anche il più difficile da scrivere. Mettere d’accordo tutte le componenti dello Stato su quell’articolo credo sia impossibile: se diciamo che lo Stato deve essere ebraico la minoranza araba insorge – spiega Della Pergola -; se diciamo che non lo è, insorgono gli ebrei ortodossi. Non c’è soluzione».

«Penso che la costituzione non migliorerebbe la condizione della minoranza araba – afferma dal suo punto di vista Ibrahim Sarsur, deputato arabo israeliano -; è probabile che se Israele decidesse di avere una sua propria costituzione cercherebbe di privilegiare le necessità della popolazione ebraica. Non sono felice dello status quo, ma è meno dannoso che avere una costituzione che non garantisca i diritti della minoranza araba».

Proprio la convivenza tra la maggioranza ebraica e la consistente minoranza araba dello Stato (che raggiunge il 20 per cento della popolazione), è un altro elemento di possibile fragilità per Israele. «Sia arabi che ebrei non hanno un altro posto dove andare – spiega Sarsur -. Israele non può mandare i cittadini arabi in un altro Paese e gli arabi non possono gettare gli ebrei a mare. Entrambe le parti devono imparare a vivere in pace e assieme. Anche se noi arabi non sopportiamo più di vivere come cittadini di terza o quarta categoria». Gli arabi israeliani non svolgono il servizio militare, ma godono sulla carta dei normali diritti civili di tutti i cittadini israeliani; anche se le loro condizioni sono più difficili: secondo il recente rapporto semestrale dell’Istituto di assicurazione nazionale (Nii, uno dei pilastri dello Stato sociale israeliano), il 52 per cento delle famiglie arabe israeliane vive sotto la soglia di povertà, percentuale di gran lunga superiore a quella delle famiglie povere non arabe.

«Per un arabo israeliano l’ebraicità è una contraddizione in termini – ammette Sergio Della Pergola -. Il fatto è che ormai lo Stato monolitico non esiste più, neppure in Europa. Pensare a uno Stato che possa essere rappresentato da un inno e da una cultura sola è un’idea che va presa con cautela. Tuttavia il problema delle minoranze potrebbe essere in parte risolto pensando a una revisione dei confini. Le minoranze arabe potrebbero andare a far parte dello Stato di Palestina». La questione demografica infine è centrale per il futuro di Israele, incuneato in un’area geopolitica con una crescita demografica araba, molto più alta degli standard «occidentali» di Tel Aviv : «Dobbiamo trovare un equilibro tra giustizia e sopravvivenza. E per sopravvivere dobbiamo riu scire ad attrarre immigrazione ebraica – continua Della Pergola -. Migliorare i nostri standard sul fronte della sanità e dell’istruzione. Investire di più sugli studenti e sulla ricerca e lo sviluppo. E questo potrebbe andare a favore anche dei nostri vicini mediorientali».

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