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Caos libanese

Carlo Giorgi
20 maggio 2008
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Caos libanese
Militari per le vie di Beirut presidiano la capitale libanese.

A due anni dall'ultima guerra con Israele, il Paese dei Cedri è alle prese con un pericoloso caos politico e istituzionale. Tre intellettuali libanesi ci offrono il loro punto di vista sui problemi della nazione.


L’immagine più adatta per spiegare il Libano di oggi è una poltrona vuota di velluto rosso: quella del presidente della Repubblica, la più alta carica dello Stato libanese, priva di titolare ormai dal 24 novembre del 2007, data in cui è scaduto il mandato dell’ex-presidente Emile Lahoud. Da allora, come negli interminabili conclavi medioevali, non sono bastati sei mesi di dibattito e diciannove convocazioni del parlamento: il Libano, unico Paese arabo in cui vive un’alta percentuale di cristiani (le stime parlano di un milione e trecentomila su 3 milioni e mezzo circa di abitanti), continua a rimanere senza presidente, in una situazione di paralisi di cui non riesce a liberarsi. I confini del Libano puzzano ancora di polvere da sparo. La guerra con Israele è terminata lasciando una scia sanguinosa di oltre mille morti libanesi e di 160 israeliani. Ed è solo l’ultimo capitolo di trent’anni di conflitti: a partire dalla guerra civile iniziata nel 1975, che ha come esito la trasformazione del Libano in un protettorato siriano in funzione anti-israeliana. La conseguente invasione israeliana dell’82, guidata dal generale Ariel Sharon e segnata dalla distruzione di Beirut e dalle sanguinose stragi dei campi palestinesi di Sabra e Chatila. Fino alla «normalizzazione»: i trattati di Taif dell’89 sulla forma condivisa dello Stato; le elezioni del 2000 vinte da Rafiq Al Hariri, primo ministro della ricostruzione, fatto saltare in aria cinque anni dopo probabilmente da mani siriane. Per arrivare alle elezioni del 2005, senza truppe di Damasco nel Paese, vinte dal fronte anti-siriano. Lo stesso che non riesce ancora a trovare un candidato per quella poltrona vuota.

Tuttavia la mancanza di un presidente è solo la punta dell’iceberg dei problemi libanesi. Il Paese fatica a trovare una forma di convivenza accettabile con chi sta fuori dai suoi confini: Siria e Israele. Ma anche con chi sta dentro, come il popolo di profughi palestinesi che da 60 anni e dalla guerra dei Sei giorni vive sul suo territorio; e Hezbollah, potente movimento sciita armato, fuori dal controllo statale. In un contesto del genere i libanesi che ne hanno la possibilità, scappano, privando il Paese delle forze migliori, in un esodo di cui nessuno conosce le dimensioni. Per capire quali siano le difficoltà del Libano a due anni dalla guerra con Israele, ma anche le speranze e le possibili prospettive future, abbiamo interpellato tre intellettuali libanesi vicini al loro Paese quanto all’Italia: Talal Krahis, corrispondente da Roma del quotidiano Assafir («Il Messaggero»), 120 mila copie vendute in tutto il mondo arabo; l’unico quotidiano libanese che, nonostante invasioni e guerre civili, non ha mai fermato le rotative. Hafez Haidar, scrittore di successo che pubblica romanzi in lingua italiana, per Piemme, e da quasi vent’anni è professore di letteratura araba all’Università di Pavia. Infine monsignor Mounir Khairallah, vicario episcopale della diocesi maronita di Batroun, professore di teologia nella Facoltà pontificia a Kaslik, testimone attento e misurato dei cambiamenti in atto nel Paese.

«Conosco il direttore delle linee aeree civili libanesi: per sbarcare il lunario ha aperto un negozio di merceria, perché il primo stipendio non gli basta più – Hafez Haidar sintetizza in un ritratto grottesco la crisi del Libano -. Decenni di guerra hanno cancellato la classe media; oggi l’unica possibilità per i giovani è di andare all’estero». Il Libano, privo di risorse naturali, da sempre vive di commercio e turismo, attività depresse dall’instabilità regionale. Il 28 per cento della popolazione è in stato di povertà, lo stipendio minimo è di 200 euro al mese ma ne occorrono almeno 600 per mantenere la famiglia. Così la maggiore risorsa economica, come nei Paesi in via di sviluppo, è data dal denaro inviato in patria dagli emigrati. Per questo, nono stante tutto, le banche resistono: secondo l’Istituto italiano per il commercio estero (Ice), il settore bancario libanese vanta 65 istituti con 789 filiali; di cui oltre 450 attive a Beirut. Per avere un termine di paragone, la produttiva provincia di Milano, comunque più popolosa dell’intero Libano, ha meno del doppio delle filiali; ma negli ultimi 60 anni non ha certo subito nessuna guerra fratricida.

«I nostri giovani partono – conferma Talal Krahis -: sono istruiti, conoscono le lingue e arrivano da una democrazia che ha sempre tenuto una finestra aperta sull’Occidente. I libanesi sono un ponte naturale tra Europa e mondo arabo. La vocazione del Libano è quella di mediatore tra culture diverse. Per questo è ancora più grave che molti cristiani siano costretti a lasciare la loro patria». «Emigrano negli Stati Uniti e in Francia – spiega Mounir Khairallah -. Ma anche nei Paesi arabi del Golfo: l’Arabia Saudita, ad esempio, domanda espressamente immigrati libanesi cristiani, con tanto di certificato dell’ufficio anagrafe: cioè cittadini arabi sicuri, che lavorino senza inconvenienti “confessionali”, evitando di schierarsi con i sunniti o con gli sciiti. Tra il ’75 e il ’90 si stima che 800 mila libanesi, per la maggioranza cristiani, siano emigrati. Dal ’90 al 2007 almeno un milione, di cui i cristiani la metà. E molti non torneranno mai più».

Il fatto è che, per sua disgrazia, il Libano è un Paese scomodo. Sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista del modello culturale. «Prima del ’75 eravamo la Svizzera del Medio Oriente – racconta Hafez Haidar -. Qualcuno pensa che forse la nostra ricchezza fosse un problema per gli altri Paesi che aspiravano ad una leadership territoriale. Meglio un Libano debole, per governare l’economia dell’area».

«Il Libano sembra quasi inconciliabile, dal punto di vista culturale, con i Paesi vicini – continua Khairallah -: Israele, ad esempio, è un Paese uniconfessionale; il Libano è l’opposto: pluralista, multiconfessionale e multiculturale. È chiaro che il successo del Libano come modello politico e di convivenza sociale, potrebbe causare qualche imbarazzo. D’altra parte la Siria è la nostra antitesi politica: un regime governato da un partito unico; mentre in Libano abbiamo una repubblica democratica». Le invasioni territoriali e le ingerenze politiche dei Paesi vicini, pesano ancora come macigni su Beirut. Trovare forme di possibile convivenza è la sfida dei prossimi decenni.

Ma i nodi forse più intricati da affrontare sono interni al Paese; il primo, in ordine storico, è di sicuro quello dei palestinesi. «Nel ’48 e nel ‘67 centinaia di migliaia di palestinesi sono arrivati in Libano, profughi dalla loro terra. Israele non li rivuole – denuncia Khairallah – e insiste con gli Stati Uniti perché il Libano li accolga in modo definitivo».

«L’arrivo dei palestinesi è stato un problema – spiega Haidar -: ha scompaginato gli equilibri interni allo Stato; vivono nei campi profughi da stranieri, senza poter svolgere molti lavori».

«Sembra però che la situazione stia cambiando – osserva Krahis -; il governo prima diceva: non dobbiamo fare nulla per loro, sennò non se ne andranno ma più. Adesso ha deciso di migliorarne le condizioni di vita e il clima sì è rasserenato. Certo, rimane un motivo di instabilità: l’esercito libanese al massimo conta 40 mila soldati; si sa che nei campi molti palestinesi sono ancora armati».

Anche Hezbollah, apprezzato dalla maggior parte dei libanesi come un movimento partigiano, ha in seno lo stesso problema: le armi, che non sono gestite direttamente dallo Stato ma da un movimento con fes sionale nazionalista sciita, legato a governi di altri Paesi musulmani (l’Iran e la Siria).

E la sovranità dello Stato, capace di tenere conto delle diverse esperienze religiose del Paese, dai sciiti ai cristiani, è l’ultimo fondamentale nodo che il Libano deve affrontare per sperare di vivere a lungo. «Lo Stato libanese è ancora fondato sul principio del “confessionalismo” – spiega Haidar -, per cui ogni parte religiosa deve essere rappresentata secondo un rigido equilibrio. Il presidente della Repubblica deve essere cristiano, il capo del parlamento sciita e il primo ministro sunnita. Ma questo alla lunga è un problema: significa dividere il popolo secondo la sua religione».

«Il Libano è un incredibile laboratorio pluriculturale e pluri religioso – continua Krhais -, occorre che tutte le sue parti siano rappresentate meglio; l’attuale legge elettorale, con il maggioritario secco, impedisce invece ai partiti laici minoritari di essere presenti in parlamento. E questa è una rinuncia che fa male al Paese».

«La cosa positiva però, è che nello stallo attuale sull’elezione del presidente della Repubblica ci sono cristiani e musulmani sia nella maggioranza sia nell’opposizione – osserva Khairallah -. Lo scontro non è di tipo confessionale; ma politico, sulla costituzione di un governo di unità nazionale e sulla nuova riforma elettorale». E forse da qui si può ripartire.

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