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I martiri e i frutti dell’Iraq futuro

Camille Eid
20 maggio 2008
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Una preghiera per la «pace» e la «sicurezza » dei cristiani in Iraq. Perché «il Signore allontani da noi ogni male e ogni persecuzione» e «faccia dono agli iracheni della grazia per sopportare tutto con fede e perseveranza». A levare questa invocazione – letta dal suo procuratore a Roma – è stato il patriarca di Babilonia dei Caldei Emmanuel III Delly, durante la Messa di suffragio celebrata in Vaticano l’11 aprile scorso per l’arcivescovo caldeo di Mossul Paulos Faraj Rahho, ritrovato morto il 13 marzo dopo due settimane di prigionia in Iraq.

Nella sua omelia il cardinale Leonardo Sandri, prefetto per la Congregazione per le Chiese orientali, ha voluto ricordare anche il giovane sacerdote Ragheed Ganni e i tre suddiaconi caldei assassinati lo scorso anno, e il sacerdote siro-ortodosso Youssef Adel Abboudi ucciso il 5 aprile a Baghdad. «La tribolazione che oggi conoscono tanti discepoli del Signore – ha affermato Sandri – è certamente destinata a portare evangelici frutti per la Chiesa caldea, per tutti i cattolici e i fratelli in Cristo iracheni. Frutti di riconciliazione interna alla comunità ecclesiale e di riconciliazione in Iraq».

Perché questa deve essere la risposta agli attacchi mirati che colpiscono senza sosta il clero di tutte le confessioni cristiane: dimostrare unità ecclesiale e solidarietà. Gli assassini di padre Youssef non hanno nemmeno tentato di rapirlo, come era successo con mons. Rahho e altri sacerdoti, per chiedere un riscatto in cambio della sua liberazione. Forse perché la loro folle richiesta non è tanto il denaro, bensì la partenza e l’esodo dei cristiani dall’Iraq. E il corpo di un prete crivellato di proiettili è più eloquente di un prete rapito.

In un Paese che si avvia a passi spediti verso una polarizzazione etnico-confessionale, solo i cristiani sembrano opporsi a tale logica distruttiva. Fino ad oggi, la maggioranza dei credenti non solo sta cercando di resistere, tra mille difficoltà, all’idea di abbandonare la terra dei padri, ma anche a quella di accontentarsi di un proprio «cantone». Ai cristiani interessa, infatti, rimanere membri di una nazione che sarà multireligiosa o non sarà. Il «no» alla ghettizzazione e alla creazione di una «zona sicura» cristiana nella Piana di Ninive, nel nord del Paese, è stato ribadito più di una volta dalla gerarchia cristiana irachena. Non si può negare che attentati e rapimenti abbiano comunque costretto migliaia di cristiani residenti nella capitale a spostarsi verso Nord, fino a decretare il trasferimento «temporaneo » dello stesso Babel College, l’unica facoltà teologica dell’Iraq. E forse la «colpa» di padre Youssef è stata proprio questa: essersi rifiutato di seguire il grosso della comunità siro-ortodossa nell’esodo verso le terre d’origine settentrionali. La sua partenza avrebbe rappresentato un campanello d’allarme per coloro che a Baghdad vogliono rimanere. Possiamo immaginare il suo travaglio interiore, tra il desiderio di preservare la propria vita e la volontà di condividere la sorte del piccolo gregge, leggendo le toccanti pagine di Sienkiewicz quando, alla domanda di Pietro «Domine, quo vadis?», Cristo risponde: «A Roma, per essere di nuovo crocifisso». E l’apostolo, compreso il rimprovero, tornò sui suoi passi e affrontò il martirio.

La Chiesa irachena – tutta la Chiesa – si è già dimostrata insieme testimone e martire, in varie occasioni. Ogni nuovo martire – come ha detto il cardinal Sandri parlando di mons. Rahho -, sottratto da mani e cuori violenti, semina la Parola di Dio. E «ora siamo pieni di speranza per il raccolto che si prepara».

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