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Il conflitto arabo-israeliano e le ragioni della memoria

Antonio Giuliano
2 marzo 2007
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Il conflitto arabo-israeliano e le ragioni della memoria
Lo storico israeliano Shlomo Ben-Ami.

Incontro con Shlomo Ben-Ami, già ministro degli Esteri di Israele e negoziatore a Camp David.


Un labirinto. La storia del processo di pace arabo-israeliano assomiglia a un labirinto, fatto di strade senza uscita e drammaticamente sanguinose. Eppure oggi c’è chi sostiene l’esistenza di un filo di Arianna che conduce alla pace. Si chiama Shlomo Ben-Ami e non è certo un ingenuo mitomane. Storico israeliano, diplomatico, Ben-Ami è stato ministro degli esteri nel 2000-2001, durante il governo di Ehud Barak. Per molto tempo è stato uno dei protagonisti delle difficili relazioni tra israeliani e palestinesi. La sua opera di mediazione è iniziata nel 1991 come membro della delegazione israeliana alla Conferenza di pace di Madrid. In Spagna peraltro era già stato nominato ambasciatore nel 1987.

Nel 1999 ha fatto il suo ingresso nel governo d’Israele, prima come ministro per la Pubblica sicurezza e dopo come ministro degli Esteri. A questo titolo ha partecipato ai negoziati di Camp David, promossi dal presidente americano Bill Clinton, e alla conferenza di Taba. Ma in contrasto con Ariel Sharon, Shlomo Ben-Ami si è ritirato dalla politica attiva. È così ritornato al primo amore: la storia. Oggi Ben-Ami è di nuovo in cattedra per insegnare Storia moderna all’università di Tel Aviv. Ha rimesso volentieri i panni da docente per cercare di capire e trasmettere il dramma mediorientale. È autore di molti saggi in merito, l’ultimo dei quali s’intitola Palestina, la storia incompiuta. La tragedia arabo-israeliana (Corbaccio 2007, pp. 538, 26 euro).

Il libro è una lunga disamina dalle origini del conflitto fino ai giorni nostri: un’opera preziosa per dipanarsi nell’intricato processo di pace. Nel presentare il volume in Italia, Ben- Ami ha ostentato un cauto ottimismo: l’ex ministro non si rassegna all’idea di una pace impossibile in Israele. Secondo lui c’è uno spiraglio per uscire da questo labirinto di disperazione, se non altro perché le vie percorse sono già state tante. Le sue tesi non peccano però di parzialità come si potrebbe ipotizzare. Il giudizio di Ben-Ami sul conflitto è ritenuto da tutti equanime: chiama in causa ambedue i contendenti e non lesina certo fendenti ai governi israeliani, sebbene si definisca ancora sionista convinto, perlomeno esponente del «sionismo vero che non è imperialista».

Per Ben-Ami «bisogna accontentarsi di uno Stato più piccolo, ma prevalentemente ebraico. Una soluzione realistica – ha affermato – potrebbe essere il ritorno di Israele ai confini del ’67». Ma il vero problema è un altro.

«La natura del conflitto non è incentrata sui territori, o almeno, quella fase si è conclusa. La natura del conflitto è soprattutto etica, riguarda le radici storiche e religiose, la memoria. Le questioni territoriali possono essere facilmente risolte, a quelle etiche bisogna ancora arrivarci».

Nel 1896 nacque il movimento sionista di Theodor Herzl, autore dell’opera Lo stato ebraico. Ben-Ami ha ricordato come all’inizio si pensava che l’integrazione con i palestinesi sarebbe stata facile. «In fondo – è la tesi dello storico – i sionisti portavano benessere economico in una regione arretrata. Per di più mancava un senso di identità nazionale palestinese, che si è sviluppata in seguito, in conseguenza del trionfalismo sionista. “Una terra senza popolo per un popolo senza terra” così era definita la Palestina». Secondo l’ex ministro, negli anni si sarebbe accentuata, da parte israeliana, una deriva militarista.

Eppure Ben-Ami ha lasciato la politica dopo aver biasimato il disimpegno di Sharon: «È stata una mossa per aggirare il negoziato. Non essendo disposto a cedere su alcuni nodi, come lo status di Gerusalemme e il rientro dei profughi, ha preferito definire i confini permanenti di Israele in modo unilaterale, con il rischio di scatenare una nuova Intifada, non più di terrorismo suicida, ma con armi a lunga gittata».

Pur tuttavia Ben-Ami difende Ariel Sharon da chi diffida della sua trasformazione da falco in colomba: «Non è mai stato un fanatico, semmai solo uno in grado di cogliere sempre le opportunità. A volte è meglio un opportunista che un ideologo, perché è capace di cambiare idea». Ben-Ami è preoccupato dal quadro politico odierno: da un lato ci sono ministri israeliani con piani di pace diversi, dall’altro i palestinesi non offrono un interlocutore accettabile. Non è una novità nemmeno la conflittualità interna: «La pace tra arabi e israeliani – ha ribadito l’ex ministro – è stata più volte a portata di mano, ma è sempre sfuggita per la debolezza degli establishment politici, incapaci di far accettare sacrifici e compromessi alle rispettive popolazioni».

Più che mai necessario è allora l’apporto internazionale: «È fondamentale – ha detto Ben-Ami -. Il ruolo principale dovrebbe essere degli Stati Uniti, anche perché gli israeliani diffidano dell’Europa, ritenendola troppo filo-araba».

Di sicuro l’ex ministro non tace sugli errori dei presidenti americani. Quelli di Bill Clinton, «incapace di sensibilizzare i governi internazionali», portarono al fallimento dei negoziati di Camp David: è il grande cruccio di Ben- Ami che nell’occasione era coinvolto in prima persona. E poi gli errori di George W. Bush che «dissolvendo la questione palestinese nella guerra globale al terrorismo ha ridato vigore all’Iran, Stato  i slamico ma non arabo: l’Iran è anzi il peggior nemico degli arabi ma, in nome dell’odio comune contro Israele, cerca di affermare la propria leadership in Medio Oriente». Ora Ben-Ami auspica un nuovo percorso, in cui Israele e l’Occidente diano ancora una chance al governo palestinese di Hamas piuttosto che ricacciarlo verso il terrorismo. Lo storico vede un inedito quanto unitario attivismo dei Paesi arabi che fa intravedere uno spiraglio di pace. Per Ben-Ami la via sulla quale convergere è «il ritiro di Israele nei confini del ’67 e un’Amministrazione internazionale che finanzi e gestisca temporaneamente i territori sgomberati». Lui è pronto a scommetterci: è questa la strada per lasciarsi alle spalle una tragedia reale e mostruosa.

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