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Gerusalemme. La Croce e la speranza

Michel Sabbah
7 aprile 2006
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Mi chiedete di fare una fotografia della situazione di Gerusalemme oggi… Nella città santa attualmente convivono tredici Chiese cristiane, di cui sei cattoliche (i riti presenti sono: latino, bizantino, maronita, siriano, armeno e caldeo – ndr), ciascuna con il suo vescovo e la sua giurisdizione. E poi ci sono anche cinque Chiese ortodosse (greca, armena, siriana, copta e etiopica). Inoltre ci sono due Chiese protestanti: luterani e anglicani. Tre i patriarchi residenti a Gerusalemme (greco, armeno e latino).

A Gerusalemme i rapporti tra le Chiese cristiane, grazie a Dio, sono buoni. Ci incontriamo spesso, specie tra i patriarchi, per discutere della situazione politica e sociale del Paese, ma soprattutto per un confronto sulle questioni pastorali che toccano le nostre comunità. I fedeli delle nostre tredici Chiese sono di lingua araba. La liturgia è per tutti in arabo. Esiste anche una piccola comunità d’espressione ebraica: alcuni ebrei battezzati, altri israeliani d’origine europea. Per loro la lingua della liturgia è l’ebraico. Questa comunità fa parte della Chiesa di Gerusalemme, che ha per la loro cura pastorale un vicariato apposito.

A Gerusalemme convivono oggi due popoli: palestinesi arabi cristiani e musulmani, ed ebrei. Gli arabi cristiani e musulmani sono un solo popolo. Prima del 1948, data della creazione dello Stato d’Israele, la Terrasanta era nota con il nome di Palestina. E anche allora vivevano in quella terra ebrei, palestinesi cristiani e musulmani. Dopo la creazione d’Israele, gli ebrei palestinesi sono diventati israeliani. Il termine israeliano determina l’appartenenza politica. Oggi in Israele ci sono ebrei e arabi palestinesi con passaporto israeliano. Tutti sono cittadini israeliani dello Stato d’Israele. Dopo la creazione dello Stato d’Israele in Palestina si è determinata questa situazione: da una parte l’entità statale israeliana, dall’altra i Territori palestinesi sotto l’occupazione d’Israele. Gli abitanti di questi Territori sono i palestinesi che abitavano in quelle aree prima del 1948.

La questione politica oggi è il conflitto tra Israele come Stato e i palestinesi nei Territori. Il conflitto nasce dal fatto che Israele occupa militarmente i Territori palestinesi. Il popolo palestinese dice: Israele se ne vada dalla nostra terra e ci sarà pace. Ma per Israele ciò non è possibile a causa dei molti insediamenti che sono stati costruiti. Ci sono oltre 300 mila ebrei nei Territori palestinesi. Gli israeliani si sono ritirati da Gaza, dove c’erano circa 7 mila coloni ebrei che occupavano un terzo del territorio della Striscia. Nei rimanenti due terzi vivevano un milione e duecentocinquantamila palestinesi. Ritirandosi i coloni, i palestinesi sono rientrati in possesso anche del rimanante terzo del Territorio. Per aver la pace serve dunque che Israele sia capace di ritirarsi interamente dai Territori palestinesi. Ma non è possibile. Il solo ritiro di Gaza ha provocato una fortissima opposizione interna e ha dilaniato la società israeliana, tanto che il successo del ritiro è stato più volte in forse. Adesso nessun leader israeliano sarà capace o vorrà ritirare il resto dei coloni dai Territori.

Comunque la situazione oggi è abbastanza tranquilla nei rapporti tra israeliani e palestinesi. Gli attentati da parte palestinese si sono fermati (l’intervento è stato pronunciato prima degli attentati di Goush Etzion e di Hadera, che hanno nuovamente seminato morte, e che hanno portato al congelamento dei rapporti tra Israele e Anp – ndr). La violenza militare da parte israeliana non è però ancora cessata. I soldati israeliani entrano nelle città palestinesi, prendono prigionieri, ammazzano… Ma in generale la situazione è calma. Tra i governi dei due popoli è in atto un dialogo per arrivare ad un nuovo assetto per Gaza dopo il ritiro.Vedremo se questi incontri sortiranno qualche effetto. Difficile arrivare però ad un assetto definitivo; forse si troveranno degli aggiustamenti per il medio periodo e un percorso che esigerà da entrambi le parti pazienza. E bisognerà avere pazienza per lunghi anni ancora, perché prima che arrivino sulla scena palestinese i capi capaci di capire le esigenze del popolo e realizzare nello stesso tempo la sicurezza di cui hanno bisogno gli israeliani, credo serva aspettare una nuova generazione, nuovi ideali. Forse quindici, vent’anni anni ancora, per vedere un’azione definitiva per la pace. In tempi brevi non credo… Forse si arriverà ad un assetto per Gaza, dove i coloni sono usciti ma permane l’occupazione israeliana. Si sta discutendo della possibilità di costruire un porto, un aeroporto e una strada verso l’Egitto. Se ci si accorderà sulla realizzazione di queste infrastrutture, allora Gaza non sarà più una prigione, ma potrà svilupparsi come una città libera. Sarà un passo importante verso la pace. Dobbiamo avere la pazienza di accettare tempi transitori, affinché le soluzioni individuate diventino possibili. La nuova dirigenza palestinese ha fatto una chiara scelta per la non violenza. Con la forza non ci si può opporre ad Israele. Dicendo no alla violenza, è stata ribadita la necessità che anche al popolo palestinese vengano concessi i propri diritti: diritto di essere liberi sul proprio territorio, diritto a libertà di movimento, no alla barriera di separazione che riduce l’Autorità palestinese a una grande prigione. Un esempio per capire: ci sono molti cristiani a Betlemme, che dista pochi chilometri da Gerusalemme, che non hanno mai visitato i Luoghi Santi della città a causa delle difficoltà per ottenere i permessi d’uscita. Questa difficoltà di movimento rende anche la vita economica molto difficile. Difficile guadagnarsi il pane quotidiano in questa situazione. E cresce il senso di frustrazione nei giovani. Come ho detto la maggior parte dei cristiani è palestinese, e quindi soffre quello che soffre il popolo palestinese. Il muro ha accentuato questa sofferenza. A Betlemme per esempio ci sono famiglie che vivono in una situazione di grande difficoltà. Recentemente ho visitato una famiglia la cui casa è stata occupata al piano terreno dai soldati israeliani. I figli hanno lasciato l’abitazione. Ma la madre ormai anziana non si è rassegnata ad abbandonare la propria casa, e per salire al secondo piano si arrampica su e giù da una scala a pioli. Lei resta lì, con coraggio, per difendere e non abbandonare la propria casa.

Nonostante questa situazione di conflitto, tra i popoli ci sono spiragli di dialogo. Ci sono rapporti umani, incontri frequenti tra palestinesi e israeliani che vogliono la pace e non vogliono farsi la guerra. C’è per esempio un’associazione di famigliari delle vittime della guerra, israeliane e palestinesi (il Parents Circle – ndr). Si incontrano per mettere in comune le loro esperienze, per condividere il dolore e per dare nel loro ambiente testimonianza di perdono e di pace. Malgrado l’incapacità dei governi, ci sono molte persone nei due popoli che agiscono per la pace. Un’altra associazione è quella delle Donne in nero, madri e vedove israeliane che lottano perché palestinesi e israeliani possano vivere gli uni accanto agli altri. Perché la pace è possibile.

C’è una tesi che afferma l’impossibilità della pace. Io credo invece che la pace sia realizzabile se si prendono le misure adeguate per far convivere questi due popoli e per riconoscere a ciascuno la propria dignità. Dunque i rapporti umani ci sono, i gruppi di dialogo religioso non mancano tra cristiani, musulmani ed ebrei. Stiamo anche lavorando ad un Concilio delle religioni che raccolga i capi delle Chiese e delle religioni presenti a Gerusalemme. Malgrado l’odio e la violenza, i segni di speranza e l’impegno per la pace non mancano.

La realtà però è quella del conflitto. Quale spiegazione possiamo dare da un punto di vista cristiano su ciò che viviamo oggi a Gerusalemme? Gerusalemme è la città santa per i cristiani, gli ebrei e i musulmani. Gerusalemme è però la città della Croce. è la città che non ha riconosciuto il suo Signore. Il Vangelo di Giovanni ce lo ricorda: "Gesù è venuto ai suoi e i suoi non l’hanno accolto". Viviamo anche oggi in questa stessa situazione: Gerusalemme non riconosce Gesù. Noi cristiani, che siamo un piccola comunità, dobbiamo cercare di essere testimoni del Risorto, di essere luce. Ma finché siamo in questa situazione di non riconoscimento, di non accoglienza della volontà di Dio, Gerusalemme rimane inchiodata alla Croce. La Chiesa di Gerusalemme resterà sulla Croce, come tutti gli abitanti della terra, siano ebrei, cristiani o musulmani. Questa è la lettura cristiana su quanto accade. E perciò la preghiera è molto importante, perché Gerusalemme è città di Dio. E Dio, nonostante le difficoltà, può decidere di donare la pace a questa terra. Se mi chiedete cosa possiamo fare, vi rispondo: pregate. Dio può far molto di più di tutti i potenti della terra. C’è bisogno che i politici facciano la loro parte, ma ancora di più serve che Dio doni ai capi dei governi l’ispirazione della pace e del bene comune.

E poi un ultimo consiglio: quando vedete in televisione o leggete sui giornali di Gerusalemme, non crediate che sia la verità. Bisogna imparare a dubitare. Quella non è la realtà, ma è una parte di realtà a cui si dà una rappresentazione. Per avere un senso della realtà, bisogna venire in Terrasanta, farsi pellegrini in quella terra, vedere di persona, accostarsi alle gente, incontrare le comunità cristiane. Allora avrete una visione corretta di ciò che viviamo a Gerusalemme, delle nostre difficoltà e delle nostre speranze.

Il testo, non rivisto dall’autore, è ricavato da una testimonianza resa dal presule il 9 ottobre 2005 presso la parrocchia di Santa Maria Nuova in Abbiategrasso, diocesi e provincia di Milano.

(Mons. Michel Sabbah è il patriarca latino di Gerusalemme)

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