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Gerusalemme, casa di preghiera per le tre religioni

Marie-Armelle Beaulieu
18 gennaio 2017
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Gerusalemme, casa di preghiera per le tre religioni
Un momento di preghiera tra ebrei, cristiani e musulmani nell'ambito dell'iniziativa Amen, a Gerusalemme. (foto Yonatan Sindel/Flash90))

Tra i tanti paradossi della Terra Santa, non è certo il minore: il fazzoletto di terra che Dio ha scelto per rivelarsi è teatro di contrasti e conflitti. Ma qualcuno va controcorrente...


Non una volta avranno parlato di politica. E non hanno parlato nemmeno di religione. Già questo rappresenta un fatto insolito in una città come Gerusalemme. Hanno pregato, invece, ciascuno nel solco della propria tradizione, uno dopo l’altro. A volte addirittura insieme quando i rispettivi testi o canti erano abbastanza universali da unirli senza dover scendere a compromessi eccessivi. Dato che Gerusalemme non è decisamente una città come le altre, questo momento unico, che in realtà si è ripetuto ogni giorno per una settimana, si è tenuto in occasione di un Festival della cultura.

Fra Alberto Pari, francescano della Custodia di Terra Santa (e nostro assiduo collaboratore), era della partita. E ne avverte ancora tutta l’emozione. E a ragione, trovandosi all’origine del progetto. «Ricordo il mio primo incontro con Tamar (una donna rabbino, fondatrice della comunità Sion collegata al movimento ebraico Masorti – ndr), è durato tre ore. La sua richiesta fu molto diretta: “Voglio saperne di più su come pregate”, mi ha detto». Tamar aveva iniziato lo stesso percorso con Ibtisam Mahameed, palestinese, musulmana, fondatrice del gruppo «La tenda di Hagar e Sarah» (le due mogli di Abramo, madri rispettivamente di Ismaele, patriarca dell’Islam, e di Isacco, patriarca dell’ebraismo), che organizza incontri tra donne per momenti di condivisone sulle rispettive fedi. Si era così costituito uno «zoccolo duro» che sarebbe cresciuto fino a formare un gruppo di una decina di persone accomunate dal fatto di parlare ebraico… e tutto il resto da scoprire.

Poi cristiani ed ebrei hanno cominciato a trovarsi più regolarmente per uno scambio sulla Parola di Dio, che condividono. Un’esperienza durata due anni che riuniva ogni mese una trentina di persone. «Ma i musulmani erano esclusi, e il livello era molto elevato, rendendosi necessario un bagaglio scritturistico, patristico o teologico troppo elitario. Siamo ripartiti con un progetto più “umano”, più pratico». Un progetto di beneficenza li ha riavvicinati. «Facevamo una raccolta di indumenti usati, rimettendoli in sesto per poi distribuirli ai bisognosi. I musulmani gestivano tutta la parte pratica».

Dopo quell’anno di lavoro insieme, Tamar fece il punto della situazione. «Ci siamo conosciuti nello studio dei testi, ci siamo conosciuti a livello umano, adesso non sarebbe ora di incontrarci nella preghiera? Di fatto, nessuno di noi sapeva nulla delle preghiere dell’altro. Noi cristiani, avevamo forse tutt’al più un’idea della preghiera ebraica… Ma che testi vengono usati, e come sono strutturate queste preghiere? E soprattutto, cosa prova un fedele quando prega? E cosa ne è della preghiera spontanea? A partire da questi interrogativi abbiamo deciso di riunirci ogni settimana intorno a quest’unico tema della preghiera, in incontri da sette a otto ore».

Avete capito bene, un incontro settimanale di un’intera giornata. A questo ritmo, era lo zoccolo duro a ritrovarsi. Tre o quattro cristiani, e altrettanti musulmani ed ebrei. «La prima volta, ognuno ha parlato della propria preghiera personale, di quella della rispettiva comunità, e ha raccontato un po’ della propria storia». Al momento del pranzo qualcuno ha chiesto a un sacerdote di dire una preghiera. Si rivolse subito a fra Alberto. «Una preghiera cristiana termina sempre con “nel nome di Cristo”…». La si poteva davvero concludere così in presenza di ebrei, soprattutto quando la si recita in ebraico, e Cristo si dice Mashiah, e dunque il significato di Messia non può sfuggirgli? «Non era come se stessimo pregando in latino, greco o qualsiasi altra lingua». Ma ai due uomini fu sufficiente uno sguardo per capirsi. L’autenticità della loro amicizia, il rapporto sincero creatosi tra ciascuno di loro, poggiava sull’accettazione della reciproca alterità. Solo alla fine della giornata il sacerdote spiegò che una preghiera cristiana si conclude sempre nel nome di Cristo, il Messia. «Non potevamo rinunciare alla nostra identità. E non per tutti ciò è stato facile da accettare, da comprendere».

Di esperienze difficili il gruppo ne ha vissute, ma ha perseverato per più di sette mesi al ritmo di un’intera giornata alla settimana. Si è addirittura trascorso un fine settimana insieme nel deserto, in tenda. «Un vero ritiro spirituale», dice fra Alberto.

Il giovane francescano ne è convinto: è grazie a tutto il lavoro fatto a monte, e alla volontà di non sconfinare mai in alcuna forma di sincretismo religioso, che la settimana tenutasi a Gerusalemme non solo ha attirato un folto pubblico ma è riuscita a suscitare una reazione quasi inaspettata. Tutti i partecipanti, infatti, sono rimasti senza parole. «Sin da quando il nostro gruppo fu invitato a partecipare al festival, sapevamo che queste giornate sarebbero state frequentate da persone di ogni genere, provenienti da qualsiasi orizzonte, dalle tradizioni che rappresentiamo così come da ambienti atei. È questo il motivo per cui non abbiamo scelto temi quali la bellezza di stare insieme, la pace, l’amore… temi che potrebbero indurre a credere che in fin dei conti siamo tutti uguali. No, abbiamo voluto tematiche come l’unità di Dio, la preghiera di domanda, la misericordia e il perdono».

«Non siamo certo il primo gruppo a fare del dialogo interreligioso, ma siamo di sicuro quello che ha dedicato più tempo e cura a pensare a ciò che avremmo proposto a un pubblico più ampio». Nell’ambito del festival Mekudeshet, infatti, per una settimana (a inizio settembre 2016) il gruppo ha proposto ogni giorno diverse ore di incontri interreligiosi che mirano a mettere in evidenza la propria convinzione: è nel rispetto e nel riconoscimento dell’alterità che l’incontro può portare più lontano.

Così, c’è stata la serata animata a turno da ogni tradizione, la partecipazione alla preghiera in una sinagoga, una notte sufi con la danza dei dervisci rotanti, o ancora una messa in ebraico. Ascoltare la messa, il Credo come anche le formule del sacrificio eucaristico in ebraico, per un ebreo osservante può essere particolarmente scioccante. Più di chiunque altro, e anche più di molti cristiani, è in grado di cogliere fino a che punto tutto ciò sia tratto dall’ebraismo e quanto contemporaneamente se ne allontani, ma anche lo interroghi.

La settimana è finita. Tutti coloro che hanno partecipato a una delle preghiere vorrebbero farlo di nuovo. Il gruppo degli organizzatori è arrivato alla fine stremato, felice e sorpreso. «Non sappiamo ancora cosa faremo di tutto ciò, che seguito dare alla cosa. Gli stimoli sono tanti. Abbiamo bisogno di ritrovarci tra di noi».

Fra Alberto, dal canto suo, considera un privilegio aver avuto la possibilità di incontrare e di ascoltare, nel corso di questi mesi, quelli che lui chiama «saggi». Ed è rimasto colpito da quanti giovani ci fossero tra il pubblico che ha partecipato alle diverse giornate di preghiera.

Non è il minore dei paradossi vedere fino a che punto, a Gerusalemme, coloro che si richiamano a Dio possano insozzare il Suo disegno per l’umanità. Ma Gerusalemme, per quanto peccatrice, rimane la città da Lui prescelta, sulle cui mura Egli ha posto delle sentinelle.

(traduzione dal francese di Roberto Orlandi)

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