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Il sogno di una Chiesa unita

Riccardo Burigana
21 marzo 2014
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Il sogno di una Chiesa unita
Il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I ricevuto dal Papa in Vaticano il 20 marzo 2013.

«Prima di tutto ringrazio di cuore quello che il mio Fratello Andrea ci ha detto. Grazie tante! Grazie tante!». Con queste parole Papa Francesco si è rivolto al patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, il 20 marzo 2013, durante l’incontro del neo-eletto Pontefice con i rappresentanti delle Chiese e delle comunità ecclesiali e delle religioni: con queste parole Francesco ha voluto ringraziare Bartolomeo non solo per quanto aveva detto a favore dell’approfondimento della comunione tra i cristiani ma anche per la sua stessa presenza a Roma in occasione dell’inizio del suo pontificato, un gesto che ha aperto prospettive nuove per il dialogo ecumenico, anche perché, come ha ricordato lo stesso patriarca, la decisione di recarsi a Roma per essere presente per l’inizio del pontificato era stata presa ascoltando le parole con le quali Bergoglio aveva salutato il mondo al momento della sua elezione, quando si era presentato come vescovo della Chiesa di  Roma  «che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese».

Il 20 marzo, prima ancora di iniziare il suo discorso, Papa Francesco aveva così mostrato quanto importanti erano per lui le parole e i gesti con i quali superare le divisioni tra i cristiani per proseguire la strada per una sempre più visibile unità della Chiesa. Nel rivolgersi a coloro che avevano deciso, così come il patriarca ecumenico, di essere presenti a Roma, Francesco ha riaffermato la scelta della Chiesa cattolica in favore della costruzione dell’unità: una scelta prioritaria e irreversibile, alimentata dalla lettura dei documenti del concilio Vaticano II e sostenuta dalla recezione di questi documenti nel corso degli anni. Fin dai primi passi del suo pontificato Papa Francesco ha voluto rivolgere un invito, non solo ai cattolici, ma a tutti i cristiani per vivere quanto fatto e sottoscritto negli ultimi decenni in campo ecumenico solo come una prima tappa di un cammino che i cristiani sono chiamati a compiere, rimuovendo le divisioni nella scoperta delle ricchezze delle tradizioni delle comunità cristiane da condividere nell’annuncio e nella testimonianza dell’Evangelo.

Proprio da questo primo incontro si è venuta così delineando l’azione ecumenica di Francesco, che si è arricchita grazie a una serie di incontri, a cominciare da quello con  Tawadros II, patriarca della Chiesa ortodossa copta d’Egitto, giunto in Italia per cercare di rafforzare un dialogo ecumenico che sostenesse i cristiani egiziani in un tempo tanto difficile della loro storia;  le incertezze del presente e le preoccupazioni del futuro avevano spinto la Chiesa copta a farsi promotrice della creazione del Consiglio delle Chiese cristiane d’Egitto con il quale manifestare l’impegno comune dei cristiani per la missione della Chiesa, così minacciata dalle nuove condizioni politiche in Egitto e, più in generale, in Medio Oriente. Nell’incontro con Tawadros II Papa Francesco ha ricordato i passi del cammino ecumenico, che hanno preso le mosse proprio da Paolo VI nello spirito della recezione del Vaticano II, generando tanti gesti che hanno favorito la comunione tra i cristiani; il Papa ha posto l’accento sull’importanza dell’«ecumenismo della sofferenza», che si richiama al patrimonio condiviso dei martiri e indica quanto «la condivisione delle sofferenze quotidiane possa divenire strumento efficace di unità». 

Si tratta di un tema sul quale Papa Francesco è tornato più volte proprio per formulare l’invito a costruire l’unità visibile della Chiesa nella condivisione delle sofferenze quotidiane che aiutano i cristiani  a vivere il perdono, la riconciliazione e la pace: da una parte Papa Francesco chiede di fare memoria di quello che i cristiani hanno già fatto insieme per l’unità della Chiesa e dall’altra di condividere delle strade per essere testimoni della missione quotidiana della Chiesa.

Tra i gesti e le parole di Papa Bergoglio in questa prospettiva un posto di rilievo spetta al rapporto che il Papa ha voluto costruire con il patriarca Bartolomeo, rinnovando la tradizione dello scambio di messaggi e della presenza di delegazioni fraterne in occasione delle festività dei santi Pietro e Paolo (29 giugno) e di sant’Andrea (30 novembre), ma soprattutto alla luce del cinquantesimo anniversario del viaggio di Paolo VI in Terra Santa, del gennaio 1964, quando Papa Montini incontrò il patriarca Atenagora, mentre il Vaticano II era ancora in pieno svolgimento e non c’era niente di sicuro e di scontato riguardo allo schema sull’ecumenismo in discussione in concilio. L’incontro tra Paolo VI e il patriarca Atenagora ha segnato in modo irreversibile l’apertura di una nuova stagione nei rapporti tra Roma e Costantinopoli, proprio per il fatto stesso dell’essere stato fatto, consegnando al mondo l’immagine di un abbraccio, al di là delle parole pronunciate. Nell’orizzonte della celebrazione di un anniversario tanto importante per il dialogo tra Roma e Costantinopoli si colloca l’annuncio di Papa Francesco, fatto dopo la recita dell’Angelus, il 5 gennaio 2014, di voler compiere un «pellegrinaggio di preghiera» in Terra Santa dal 24 al 26 maggio, per incontrare il patriarca Bartolomeo e tutti i rappresentanti delle Chiese cristiane di Gerusalemme al Santo Sepolcro. Accanto al dialogo con il mondo  ortodosso, segnato anche da tanti gesti di apertura con il patriarcato di Mosca, si deve ricordare l’incontro del 14 giugno con l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, al quale il 18 marzo Papa Francesco ha rivolto un breve messaggio per l’inizio del suo servizio dopo le dimissioni di Rowan Williams di fronte alle crescenti difficoltà nella Comunione anglicana, e quello del 21 ottobre con la delegazione della Federazione Luterana Mondiale e  con  rappresentanti della Commissione per l’unità luterano-cattolica in un momento in cui si moltiplicano dichiarazioni e progetti per vivere il cinquecentesimo anniversario della nascita della Riforma, nel 2017, come un tempo privilegiato nella rimozione dello scandalo della divisione. Questi incontri, come il messaggio per la decima Assemblea del Consiglio ecumenico delle Chiese, a Pusan in Corea del Sud, dal 30 ottobre all’8 novembre, hanno delineato contenuti e forme dell’impegno ecumenico di Francesco «per consolidare l’azione dei seguaci di Cristo nella preghiera e nella cooperazione a servizio del Vangelo e del bene della famiglia umana».

Sarebbe però riduttivo e, per molti versi, fuorviante circoscrivere l’impegno per l’unità della Chiesa di Papa Francesco agli incontri con i rappresentanti delle Chiese e comunità ecclesiali o ai messaggi indirizzati a incontri internazionali, come nel caso del Simposio intercristiano di Milano sulla figura di Costantino dal 28 al 30 agosto scorso, come se il dialogo ecumenico fosse qualcosa da vivere solo in alcuni momenti, affidando, di fatto, il suo approfondimento e il suo sviluppo alla riflessione teologica di coloro che sono coinvolti in prima persona nella ricerca di soluzioni alle questioni ancora aperte. In Papa Francesco forte e continuo è stato il richiamo a un coinvolgimento quotidiano della Chiesa cattolica nel cammino ecumenico; questo richiamo si inserisce nella tradizione della recezione del concilio Vaticano II e quindi non può essere considerato una novità del pontificato di Bergoglio, che pure l’ha proposto con accenti nuovi all’interno di una prospettiva di missione e di annuncio che deve coinvolgere le comunità locali nella quotidianità della loro esperienza di fede. Il continuo invito a vivere la centralità dell’evangelo, a farsi poveri tra i poveri, a costruire la pace nella giustizia, a favorire il dialogo con il mondo e nel mondo delinea una missione della Chiesa che non può essere pensata se non in termini ecumenici e che quindi va fatta insieme agli altri cristiani per condividere la gioia, la speranze, il dolore e le sofferenze. Nel delineare questa prospettiva è evidente il richiamo, talvolta esplicito, spesso implicito, ma sempre chiaro, ai documenti del concilio Vaticano II che, come ha raccomandato il Papa in tante occasioni, deve essere conosciuto, dal momento che il Vaticano II costituisce un patrimonio spirituale che può aiutare la Chiesa cattolica a vivere la comunione.  

Il continuo richiamo al Vaticano II aiuta anche a comprendere una dimensione del dialogo ecumenico che Papa Francesco considera fondamentale, cioè il rapporto con il popolo ebraico; le sue parole in questa direzione, che si sono aperte, a poche ore dalla sua elezione, con un messaggio a Riccardo Di Segni, il rabbino capo di Roma,  hanno evocato l’importanza della dichiarazione Nostra aetate nella definizione di una nuova stagione di dialogo tra cristiani ed ebrei: proprio a partire dal documento del Vaticano II «si è sviluppata con rinnovato vigore la riflessione sul patrimonio spirituale che ci unisce e costituisce il fondamento del nostro dialogo. Questo fondamento è teologico, e non semplicemente espressione del nostro desiderio di rispetto e stima reciproci, pertanto è importante che il nostro dialogo sia sempre profondamente segnato dalla consapevolezza della nostra relazione con Dio», come ha ancora ricordato il Papa, nell’incontro con una delegazione del American Jewish Commitee, il 13 febbraio 2014. A rafforzare la centralità di questa dimensione nel dialogo ecumenico hanno contribuito anche altri fattori, come la grande diffusione che ha avuto il volume Il cielo e la terra (2010), che presenta il dialogo tra l’allora arcivescovo di Buenos Aires e il rabbino Abraham Skorka sulla fede, in un dialogo fatto di rispetto, di amicizia, di desiderio di conoscere.

L’accento posto sul rapporto con il popolo ebraico rimanda al recupero della prospettiva ecumenica di dialogo, così come era stata pensata e discussa al Vaticano II, senza però approdare a un unico documento, come era stato progettato dal cardinale Agostino Bea; in questa ottica si deve leggere anche il gesto della firma di Papa Francesco al messaggio per la fine del Ramandan, che pure rinvia alla necessità di un ulteriore sviluppo del dialogo interreligioso, che si può solo evocare, poiché meriterebbe una riflessione a parte, soprattutto per l’appello alla costruzione della pace e alla lotta contro la violenza.

In questi primi mesi di pontificato emergono così alcuni elementi che non solo indicano quanto importante sia l’azione per la costruzione dell’unità visibile della Chiesa per Papa Francesco, ma come questa azione sia per lui parte essenziale di una testimonianza cristiana quotidiana che si fondi sul patrimonio dogmatico, pastorale e spirituale del concilio Vaticano II per pensare ecumenicamente il presente e il futuro della missione della Chiesa. In questa prospettiva appare fondamentale l’esortazione apostolica post-sinodale Evangelii gaudium dove Papa Francesco dedica una parte del IV paragrafo, quello conclusivo, Il dialogo sociale come contributo per la pace del capitolo 4 sul La dimensione sociale dell’evangelizzazione proprio al dialogo ecumenico, che viene presentato nei numeri 244-246, che seguono quelli su Il dialogo tra la fede, la ragione e le scienze (242-243) e precedono quelli su Le relazioni con l’Ebraismo (247-249), su Il dialogo interreligioso (250-254) e su Il dialogo sociale in un contesto di libertà religiosa (255-258); la struttura di questo paragrafo richiama l’articolazione del «progetto ecumenico» voluto dal cardinale Bea che, proprio per la sua ricchezza, ha rappresentato un punto di riferimento nel dialogo ecumenico di tante comunità locali nel post-concilio, al di là della bocciatura di questo «progetto ecumenico» e della sua riformulazione al Vaticano II, con la promulgazione del decreto Unitatis redintegratio sui principi cattolici dell’ecumenismo, la dichiarazione Nostra aetate sulle religioni non-cristiane e la dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa.

Nell’esortazione Evangelii gaudium Papa Francesco ricorda a tutti come l’impegno ecumenico sia una risposta a un preciso comando evangelico all’unità dalla quale dipende «la credibilità dell’annuncio cristiano» che sarebbe molto più grande se venissero meno le divisioni. La costruzione dell’unità visibile della Chiesa si configura come un aiuto alla «famiglia umana» per vincere pregiudizi e violenza  ma è soprattutto un elemento fondamentale dell’azione missionaria che non può più accettare la divisione dei cristiani;  si tratta di un’urgenza da cominciare a risolvere, affidandosi al «principio della gerarchia delle verità» in modo da camminare «speditamente verso forme comuni di annuncio, di servizio e di testimonianza».  Il cammino – che vivrà un momento speciale al Santo Sepolcro di Gerusalemme con l’incontro di Francesco con Bartolomeo e i rappresentanti delle Chiese sorelle – non è solo un’occasione nella quale «ricevere informazioni sugli altri per conoscerli meglio» ma è un tempo privilegiato dell’azione dello Spirito per scoprire i doni imparando gli uni dagli altri. Per Francesco proprio «attraverso uno scambio di doni, lo Spirito può condurci sempre di più alla verità e al bene».

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