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Monumenti alla Gloria

Giovanna Franco Repellini
23 settembre 2010
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Monumenti alla Gloria
L'architetto Antonio Barluzzi in uno scatto del 1955.

Pressoché sconosciuto in Italia, in Israele è studiato nelle università.
L’architetto Antonio Barluzzi, in oltre quarant’anni di attività in Terra Santa,
ha progettato alcuni dei più importanti santuari cristiani, cercando ogni volta di tradurre nella forma e nei materiali il messaggio evangelico del luogo. Un profilo di questo straordinario personaggio a cinquant’anni dalla morte.


Chi dall’Italia arriva in Terra Santa per un pellegrinaggio sui luoghi biblici, pensando di visitare antichi monumenti, resta stupito di trovare sul percorso varie chiese del Novecento costruite da un unico architetto, sconosciuto in patria: Antonio Barluzzi. Quasi tutte le basiliche bizantine e medioevali, infatti, sono state distrutte ed è necessario un lungo salto nella storia per giungere al periodo della ricostruzione francescana che si consolida nel Novecento con l’edificazione di basiliche ad opera di Barluzzi, uomo di intensa spiritualità artistica di cui quest’anno cade il cinquantenario della morte. Nato a Roma il 26 settembre 1884, figlio una buona e numerosa famiglia della borghesia romana, legata professionalmente al Vaticano, Antonio, detto Toto, era un adolescente inquieto e sognatore: «L’incertezza mi dà agitazione e mi strazia», scriveva cercando risposte nella fede e nella religione. Desiderava prendere i voti religiosi ma nel frattempo si era laureato in ingegneria come il fratello Giulio che l’aveva portato con sé a Gerusalemme nel 1912 perché lo aiutasse con il progetto e la costruzione dell’Ospedale italiano per l’Associazione nazionale per soccorrere i missionari italiani (Ansmi), opera tutt’oggi esistente trasformata nella sede del ministero dell’Istruzione del governo israeliano. Tornato in Palestina dopo la prima guerra mondiale, gli fu proposto dal Custode di Terra Santa, fra Ferdinando Diotallevi, di progettare e costruire le chiese del Monte Tabor e del Getsemani, costruzioni rese possibili anche da sottoscrizioni internazionali. Padre Diotallevi desiderava rendere evidenti le caratteristiche della spiritualità francescana nei luoghi del Vangelo e Barluzzi elaborò una teoria che seguirà tutta la vita e che è la cifra della sua opera: in Terra Santa ogni luogo religioso è legato a un mistero della vita di Gesù è quindi necessario modellare l’arte e la forma di ogni architettura in modo da esprimere il sentimento che viene dallo specifico evento.

Costruire sul monte Tabor era un’impresa molto complessa perché mancava tutto, anche la strada per arrivare e l’acqua, che doveva essere portata con cisterne a dorso di mulo; inoltre non vi era una manodopera locale capace, per cui Barluzzi fece venire dall’Italia vari scalpellini organizzando sul posto una scuola di addestramento per le maestranze locali: sui cantieri si trovavano i modellini di gesso e gli operai dovevano riprodurne i dettagli. Anche le imprese artigiane erano tutte italiane, soprattutto romane, e in queste chiese iniziò una collaborazione tra l’architetto e alcuni artisti che in taluni casi durerà per tutta la vita. Spostandosi continuamente tra il Tabor e il Getsemani egli fu preso per alcuni anni in una attività frenetica e creativa che, pur affaticandolo, lo rendeva molto felice.

La chiesa del Getsemani, sul monte degli Ulivi, nel luogo dell’agonia di Cristo, vuole ricordare l’immagine del Christus dolens et triumphans, e mostra in modo particolare cosa l’architetto intendesse per architettura simbolica: la sofferenza di Gesù e il suo dolore vengono rappresentati da una costruzione di ispirazione bizantina. Dodici piccole cupole evocano la chiesa primitiva; l’interno in penombra ispira malinconia per l’effetto dei vetri violacei di dieci finestroni, mentre la gloria è ben rappresentata dall’architettura trionfale della facciata di ispirazione classica romana. Questa basilica fu più costosa del previsto e le decorazioni interne si protrassero per parecchi anni, fatto che provocò molti malumori e accuse all’architetto, anche perché era subentrato come Custode di Terra Santa fra Aurelio Marotta, che non l’aveva in simpatia. Nonostante ciò ottenne l’incarico per il restauro della chiesa della Flagellazione che iniziò nel ’28. La chiesa preesistente, ottocentesca, era malandata e la Custodia desiderava dare maggior forza al complesso dell’adiacente Studium Biblicum Franciscanum che aveva iniziato da poco a funzionare. La ricostruzione vede una nuova facciata a capanna in masselli di pietra in stile medioevale crociato, ma è all’interno, nel presbiterio, che l’architetto compie l’intervento più interessante. Scrive: «Una mattina ebbi l’idea integrale delle decorazioni. Questa idea mi dette una grande letizia e un coraggio particolare per affrontare tutte le difficoltà che sarebbero nate con l’esecuzione». Le tre grandi vetrate ad arco e la cupola gemmata di grande qualità artistica furono realizzate da Cesare Picchiarini e Duilio Cambellotti. Terminata la piccola chiesa, l’architetto si ritirò sul lago di Tiberiade dove nel ’35 dall’Ansmi ottenne l’incarico per  la costruzione della chiesa delle Beatitudini. Era per Barluzzi un periodo malinconico, perché si sentiva emarginato. Ma la sua ricerca interiore di pace lo guidava nella progettazione. Scriveva: «Ho cercato quindi di ottenere un ambiente di grande serenità nella dolcezza delle linee e dei chiaroscuri e nella tranquilla gradazione dei semitoni dello stesso colore, ambiente adatto alla elevazione dello spirito». In ricordo delle otto Beatitudini di Cristo la chiesa, collocata dall’architetto in una posizione straordinaria, è ottagonale, sormontata da una cupola e circondata da un portico panoramico: costruita in pietra bianca e grigia vuole ricordare l’architettura italiana del quattrocento, in onore dell’associazione committente.

Nel ’37 Barluzzi si occupò anche del restauro della cappella del Calvario al piano superiore del Santo Sepolcro che, come egli ricorda, si trovava in una condizione di «squallore desolante». Per questo lavoro egli era rientrato a Gerusalemme e il nuovo Custode fra Alberto Gori premeva per la costruzione del santuario della Visitazione nel luogo dove per tradizione era avvenuto l’incontro tra Maria ed Elisabetta. Il periodo in cui l’architetto si sentiva messo in disparte era ormai finito: «I santuari tornarono impensatamente nelle mie mani». Le Beatitudini furono terminate nel maggio del 1938 e Barluzzi si trasferì a Ain Karem dove abitò durante i lavori che seguiva giorno per giorno. Le soluzioni progettuali procedevano insieme ai ritrovamenti archeologici di padre Bellarmino Bagatti che annota nel suo diario: «Con Barluzzi discutiamo i piani della nuova chiesa. Ha già impostato due disegni della cripta e uno di quello della chiesa». L’architetto procedette con due costruzioni separate: la basilica inferiore, dove recuperò ciò che era rimasto dell’edificio di culto di epoca medievale integrandolo nella costruzione con  un porticato antistante, e una basilica superiore, totalmente nuova, a cui si accede con una  scala laterale.

Durante gli anni della guerra Barluzzi tornò in Italia, soggiornando nella sua casa di campagna e lavorando ai disegni della basilica dell’Incarnazione a Nazaret che egli stimava l’opera più importante della sua vita: i disegni e il modellino di questa chiesa vennero esposti e pubblicati durante l’Anno Santo nel 1950. Tornato a Gerusalemme nel dopoguerra, dopo aver ottenuto il benestare del Dipartimento di Archeologia, gli venne affidato dalla Custodia l’incarico del restauro del chiostro di San Gerolamo, confinante con la chiesa della Natività a Be-tlemme. La costruzione  era semi diroccata: «L’usura dei secoli, degli incendi e degli sfregi bestiali e delle impietose sovracostruzioni utilitarie – scrive –  avevano reso irriconoscibile il volto del chiostro; (…) di 64 capitelli doppi sulle colonnine sussistono 20 più o meno ben conservati». Nel suo progetto l’architetto ricostruì in modo attento e mirabile l’ambiente ricollocando le nuove colonnine e capitelli con una forma geometrica, liscia, priva di decorazioni floreali e senza falsi storicismi.

In questo periodo l’architetto Barluzzi era preso da una attività intensa, conducendo però una vita quasi monastica e appartata. Aveva infatti chiuso il suo studio professionale e abitava nei conventi; la salute non era più buona e all’inizio degli anni Cinquanta, durante una operazione di cataratta, aveva perso la vista da un occhio. Anche l’ansia lo aveva ripreso: «Anno Santo, in maggio a Roma, Sistema nervoso scosso ed esaurito.(…) In Agosto e settembre 1953 all’ospedale di Amman. Il 25 aprile entro nei 70 anni».

Nonostante le preoccupazioni per la salute iniziò i lavori per la chiesa di San Lazzaro a Betania realizzando un edificio austero in calcestruzzo ricoperto di lastre di pietra. Così lo descrive: «La facciata e le tre testate dei bracci di croce hanno linee gravi, solenni, austere pur nella grande semplicità, come si addice ad un ipogeo. La cupola stessa con le sue modeste dimensioni esteriori rammenta la copertura più usata negli edifici tombali di un certo rilievo». All’interno troviamo in basso la zona oscura, man mano che si sale aumenta la luce, che è elemento progettuale dominante in tutte le sue opere, usata sempre per rafforzare il tema simbolico dell’ascesa .

Durante i lavori l’architetto abitò a Betfage, luogo dove una antica tradizione popolare voleva che Gesù fosse salito sull’asinello la domenica delle Palme. Barluzzi intervenne sulla chiesetta esistente costruendo una torre sul fronte a ricordo di un castello disegnato su una roccia che si trova all’interno, decorata nel Medioevo a ricordo dell’evento.

La prima pietra della cappella del Campo dei Pastori, dove si celebra l’annunciazione degli Angeli per la nascita di Gesù, fu posata nel Natale del 1953 e la chiesa fu inaugurata nel Natale dell’anno successivo, ma i disegni dei progetti risalgono ai primi anni Trenta. Pare che questa piccola chiesa, assai originale, fosse la preferita dell’architetto, che così la descrive: «La meditazione del soggetto ha portato l’architettura a foggiare un ambiente circolare coperto a cupola, rappresentante l’irraggiamento dall’alto dell’illuminazione divina secondo le parole “Claritas Dei circumfulsit illos”; e altri minori padiglioni, sviluppati a cerchio intorno al primo, che vorrebbero rendere l’idea delle tende pastorali sulle quali si diffuse il miracolo luminoso». Nessuna decorazione è aggiunta all’esterno se non il bell’angelo in bronzo di Duilio Cambellotti sopra l’architrave dell’ingresso.

Nel 1955 inizia la realizzazione della cappella del Dominus Flevit sul monte degli Ulivi, dove nel piccolo edificio inserisce frammenti musivi e tracce bizantine del VII secolo. Il motivo ispiratore e simbolico sono le lacrime di Cristo e alla sagoma di una lacrima si rifà la forma della cupola allungata ed ellittica posta al centro di una croce con quattro braccia di cui il più lungo, rivolto in direzione di Gerusalemme, contiene una grande finestra arcuata verso la valle, elemento chiave dell’ispirazione progettuale perché vuole metterci nella stessa posizione e nello stesso stato d’animo di nostro Signore quando, guardando Gerusalemme, pianse. L’effetto complessivo è unico e la piccola chiesa non assomiglia a nessun’altra, contornata da un giardino di ulivi e da una terrazza dove si gode uno dei panorami più celebri e commoventi della città. E in questo luogo, anche noi con commozione, lasciamo l’architetto Barluzzi, che non riuscì a costruire la chiesa dell’Incarnazione. L’incarico fu dato all’architetto milanese Giovanni Muzio, fatto questo che al nostro procurò un grande dolore.

Antonio Barluzzi morì povero il 14 dicembre 1960, avendo lasciato tutti i suoi averi alle suore Calasanziane a Roma. A noi ha lasciato numerose opere e soprattutto dodici chiese progettate con immutata passione, sempre diverse e fantasiose, con collocazioni paesaggistiche straordinarie, ricche di dettagli raffinati e dove la luce è studiata come traccia terrena dell’eterno.

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