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Missione, testimonianza dell’amore di Cristo

mons. Luigi Padovese
23 settembre 2010
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Missione, testimonianza dell’amore di Cristo

Ricordiamo la figura di mons. Luigi Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia assassinato il 3 giugno scorso, pubblicando il testo di un intervento denso e significativo tenuto alla seconda Assemblea ecclesiale del patriarcato di Venezia (San Marco, domenica 11 ottobre 2009).

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In questo particolare momento storico dell’Europa a molti cristiani, presumibilmente per una concezione individuale e intimistica di religione sulla quale si dovrebbe riflettere e nella quale la si vorrebbe relegare, risulta difficile confessare a parole la loro fede. V’è un diffuso timore nel trattare temi religiosi e manca. il coraggio dì affermare sia in pubblico che in privato la propria fede, spesso per scarsa formazione. Il che ci ricorda come sia necessaria una nuova grammatica della fede che significa anzitutto chiarire a se stessi perché e come essere cristiani, e poi chiarirlo e mostrarlo a chi non lo è. Penso che anche alla nostra realtà italiana si possa applicare quanto scriveva tempo fa il vescovo di Erfurt in Germania. «Alla nostra Chiesa cattolica (in Germania) manca qualcosa. Non è il denaro. Non sono i credenti. Alla nostra Chiesa cattolica (in Germania) manca la convinzione di poter guadagnare nuovi cristiani… e quando si parla di missione v’è l’idea che essa sia qualcosa per l’Africa o l’Asia, ma non per Amburgo, Monaco, Lipsia o Berlino».

Particolarmente oggi, in epoca di pluralismo, va ravvivata la consapevolezza che la testimonianza fonda e precede l’annuncio, anzi è il primo annuncio. È sempre vero che il primo passo nel diventare cristiani si fonda nell’incontro di uomini che vivono da cristiani convinti. Ci conforta in questa convinzione il metodo missionario che Francesco d’Assisi consigliava ai suoi frati «che non facciano liti e dispute… e confessino d’essere cristiani». È in sintonia con questo modo di sentire quanto leggiamo nell’Evangelii nuntiandi (un’esortazione apostolica di Paolo VI – ndr) dove si parla della testimonianza senza parole che suscita domande in quanti vedono. Già questa – leggiamo – «è una proclamazione silenziosa ma molto forte ed efficace della buona novella… un gesto iniziale di evangelizzazione».

Questo modo di essere testimoni silenziosi è stato quello scelto da don Andrea Santoro, il mio sacerdote ucciso il 5 febbraio 2006 a Trebisonda. Quando la mattina successiva all’assassinio mi sono recato all’obitorio per vedere il cadavere la prima impressione, del tutto spontanea, è stata la somiglianza tra il corpo nudo di don Andrea con il capo riverso e il segno del foro al fianco e l’immagine di Cristo morto del Mantegna. Non abbiamo mai saputo cosa abbia indotto il giovane assassino a questo atto di violenza. Dal processo è emersa la sua colpevolezza, ma delle connessioni, delle influenze, del clima d’odio che ha determinato l’assassinio nulla sappiamo e, credo, sapremo mai.

Don Andrea era venuto in Turchia affascinato da questa terra, dal suo passato, dal desiderio di essere un ponte tra islam e cristianesimo, ma pure tra Oriente ed Occidente. La piccola rivista che aveva creato con amici di Roma portava il titolo Finestra sull’Oriente. Ora questa finestra – grazie al suo martirio – s’è spalancata, e attraverso di essa la nostra situazione, prima conosciuta a pochi, ora è divenuta nota a molti. Con il sacrificio della sua vita don Andrea ha fatto veramente da ponte attraverso una testimonianza fatta di non molte parole, ma di una vita semplice, vissuta con fede.

Nell’e-mail che m’ha inviato il primo ottobre 2005, scriveva: «Abbiamo ripreso la nostra vita regolare, fatta di studio, di preghiera, di accoglienza, di cura del piccolo gregge, di apertura al mondo che ci circonda, di tessitura di piccoli legami, a volte facili, a volte difficili. Il Signore è la nostra fiducia, nonostante i nostri limiti e la nostra piccolezza. Io sono qui finché mi pare di poter essere utile e finché le circostanze lo consentono. Il Signore mostrerà le sue vie». Tre mesi dopo questa sua testimonianza, fatta nel piccolo, è emersa agli occhi di tutta la Chiesa mettendo in luce la nostra realtà cristiana di Turchia. Veramente si tratta ormai di ben poca cosa.

Uno sguardo alla recente storia porta a riconoscere che parecchi cristiani tra quel 20 per cento che agli inizi del Novecento costituivano la popolazione totale, a motivo delle discriminazioni e vessazioni sperimentate, hanno scelto – almeno formalmente – di rinunciare alla loro fede omologandosi ai musulmani, almeno sui documenti ufficiali. Altri – assai pochi e per lo più al sud del Paese o nei grandi centri – hanno mantenuto la propria identità, ma a volte senza un reale approfondimento. L’hanno conservata nel rispetto della tradizione come si conserva in casa un quadro antico di cui non si apprezza il valore. Lo si tiene perché fa parte dell’arredamento della casa, ma senza dargli il giusto rilievo, facendone una ragione di vita. D’altra parte, la situazione d’emarginazione in cui i cristiani sono stati isolati, la loro diminuzione numerica, la scarsità del clero e l’impossibilità di formare nuove leve, la totale scomparsa della vita monastica hanno portato il cristianesimo ad un vistoso ridimensionamento e a perdita di visibilità.

Ultimamente proprio le tragiche morti di don Andrea, del giornalista armeno Hrant Dink (ucciso il 19 gennaio 2007 – ndr), dei tre missionari protestanti di Malatia (assassinati il 18 aprile 2007 – ndr) come altri episodi registrati dalla stampa locale e internazionale, hanno portato alla ribalta la realtà di un cristianesimo che in Turchia esiste ancora e reclama pieno diritto di cittadinanza volendo uscire dall’anonimato in cui è stato relegato. In questo impegno ha un suo peso, all’interno del Paese, l’affermarsi di un islam tollerante rispetto alle religioni non islamiche. La stessa potente spinta che viene dall’Europa non è priva di effetti per le comunità cristiane. di Turchia. Vorrei qui accennare all’interesse mostrato dalle autorità per le celebrazioni a Tarso dell’anno paolino. Eppure anche a questo riguardo la richiesta rivolta da più parti al governo turco di poter utilizzare la chiesa/museo di Tarso precedentemente confiscata dallo Stato come luogo permanente di culto, sta ancora attendendo una risposta. Se, come mi auguro, ci verrà concessa questa chiesa questo sarà per me il segnale che la Turchia non soltanto a parole, ma anche nei fatti, si sta aprendo ad un clima di libertà religiosa. (La vicenda, dopo l’uccisione di mons. Padovese, è ancora in attesa di soluzione – ndr).

Non va comunque dimenticato che questo cammino è tutto in salita. Potrebbero confermarlo le numerose difficoltà che noi vescovi ci troviamo spesso ad affrontare. Penso anzitutto all’impossibilità di formare sacerdoti turchi che garantiscano un futuro a questa Chiesa per l’impossibilità di aprire seminari. E se noi cristiani latini che in Turchia come Chiesa non esistiamo possiamo sopperire a questo impedimento con personale che viene dall’estero, la cosa è più grave per le Chiese etnico religiose riconosciute dallo Stato i cui vescovi e reti devono essere cittadini turchi. Ma se queste Chiese non possono aprire seminari, quale futuro le attende se non una lenta, progressiva, estinzione? (…) Se, come è avvenuto nei decenni passati, accettassimo come cristiani di non comparire, restando una presenza insignificante nel tessuto del Paese, non ci sarebbero difficoltà, ma stiamo rendendoci conto che, come sta avvenendo in Palestina, in Libano e soprattutto in Iraq, è una strada senza ritorno che non fa giustizia alla storia cristiana di questi Paesi nei quali il cristianesimo è nato e fiorito, e che non farebbe giustizia alle migliaia di martiri che in queste terre ci hanno lasciato in eredità la testimonianza del loro sangue. (…)

Come è stato osservato, la Chiesa non ha una missione, non fa missione, ma è missione. E dunque va capita da essa. Se vuol rimanere Chiesa di Cristo deve uscire da sé. In quanto – come dice il concilio. Vaticano II – è «sacramento universale di salvezza», essa è ordinata al Regno, è al suo servizio, esiste per proclamare il Vangelo, e non soltanto oggi come misura d’emergenza in tempo di crisi, ma come costitutiva del suo essere. E il senso di tale impegno è di far si che un’esperienza divenuta messaggio torni ad essere esperienza. «Noi parliamo di ciò che abbiamo visto ed udito», dichiara l’apostolo Giovanni (1 Gv 1,3).

La missione dunque è testimonianza resa all’amore di Gesù Cristo e al volto di Dio da lui rivelato. Da questo punto di vista essa non ha perso nulla della sua urgenza anche se s’impone un nuovo stile di missione meno ecclesiocentrico e meno interessato, come se Chiesa terrena e Regno di Dio coincidessero perfettamente. Si tratta di portare gli uomini a scoprire liberamente che il cammino di fede alla sequela di Gesù arricchisce la vita: va restituito al Vangelo il carattere di Vangelo, cioè di notizia che dà gioia, trasmettendo la visione che Gesù aveva del Regno, ma pronti a raccogliere anche delusioni. Ma non può essere altrimenti poiché la fede, in quanto espressione congiunta della grazia di Dio e della libera adesione umana, non si può imporre ma soltanto proporre. Ed è qui che il ruolo della testimonianza diventa fondamentale anche perché, come diceva un Padre della Chiesa – «gli uomini si fidano più dei loro occhi che delle loro orecchie».

Nello scrivere una lettera pastorale ai fedeli delle nostre Chiese in occasione dell’anno paolino noi vescovi di Turchia abbiamo rilevato come le difficoltà che Paolo ha sperimentato nell’annuncio del Vangelo non lo hanno frenato. Egli le ha intese piuttosto come il proprio contributo personale perché il Vangelo portasse effetto. Annunciare Gesù Cristo per l’Apostolo è stata una necessità che nasceva dall’amore per Lui. Ciò significa che chi incontra Cristo non può fare a meno di annunciarlo, sia con la vita che con le parole.

L’apostolo che ha sperimentato la difficoltà di questo annuncio, anche da parte dei fratelli di fede, ci ricorda come quello che conta è che Cristo «venga annunciato» (Fil 1 ,8), ma ci richiama pure alla nostra comune responsabilità nei confronti di quanti non sono cristiani. Lo abbiamo definito l’apostolo dell’identità cristiana, perché s’è strenuamente battuto affinché l’annuncio del Vangelo non smarrisse la propria essenza e non si diluisse in forme sincretiste. Questa è stata la sua missione fin dall’inizio, sia nel prendere posizione contro rigurgiti di pensiero giudaizzante che vanificava l’azione salvifica di Cristo, ma pure contro la tentazione di dar vita ad un cristianesimo che non esigeva conversione. Egli – oggi come allora – ci ricorda che «cristiani non si nasce, ma si diventa» e ci richiama ad una realtà di Chiesa intesa anzitutto come il «noi» dei cristiani e non una realtà soprapersonale, un’istituzione in cui trovare mezzi di salvezza. Essa è solidarietà, scambio, comunicazione dall’uno all’altro, comunione fraterna, unanimità che prega, ambiente di conversione, partecipazione alla croce, comunità di testimoni. Questa è la prima testimonianza da offrire. «In essa – scriveva Metodio d’Olimpo – i migliori portano i mediocri e i santi i peccatori. Quanto a quelli che sono ancora imperfetti, che cominciano appena negli insegnamenti della salvezza, sono i più perfetti che li formano e li partoriscono, come attraverso una maternità».

V’è dunque un servizio «materno» della comunità cristiana e propriamente dei laici. Occorre prenderne sempre più coscienza e mi auguro che le mie poche riflessione possano servire anche a questo.

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