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Il conflitto tra israeliani e palestinesi si riverbera anche nei libri di testo scolastici. Ciascuna delle parti racconta i fatti a modo suo. Di qui l'idea di un gruppo di insegnanti: offrire le due versioni della storia israelo-palestinese.

La Storia siamo noi

Giorgio Bernardelli
18 novembre 2008
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La Storia siamo noi
Una riunione degli insegnanti che partecipano al progetto Prime.

Uno dei ritornelli ricorrenti nelle cronache sul Medio Oriente è la battaglia intorno ai libri di testo. Quando si vuole alzare il livello dello scontro, si vanno a cercare alcune pagine effettivamente molto discutibili dei libri di testo e si dice: «Vedete come educano i ragazzi all’odio?». Uno sguardo un po’ più attento rivelerebbe, però, che tra Israele e i Territori palestinesi c’è un gruppo di insegnanti che – da alcuni anni ormai – si sta spingendo molto avanti nell’educare alla pace proprio attraverso i libri di scuola. Si tratta dell’équipe del Peace Research Institute in the Middle East (Prime) che sta lavorando su un’idea forte: quella che il primo passo per educare alla pace è accettare il fatto che in un conflitto esistono due sguardi diversi. Due prospettive che non possono non influire anche sull’insegnamento della storia. Perché ciascuno tende a insegnare la propria storia, la ricostruzione dei fatti che il proprio sentimento nazionale ha dato per consolidata. Una storia che, a volte, è molto diversa da quella raccontata dal proprio nemico.

Chi mente e chi dice la verità? Il più delle volte nessuno dei due: sono semplicemente due modi opposti di guardare agli stessi fatti. Perché – allora – non provare a raccontare ai ragazzi il conflitto israelo-palestinese con un metodo nuovo, che dia spazio a entrambe le narrative? È l’idea guida del progetto «La storia dell’altro», che il Prime sta portando avanti ormai dal 2001. Dodici insegnanti di scuole superiori (sei israeliani e sei palestinesi) si sono incontrati periodicamente per elaborare dei libri di storia molto particolari: per ogni fatto propongono con due testi a fronte le due versioni, quella  della storiografia israeliana e quella della storiografia palestinese. Seguendo questo metodo sono stati completati tre libretti, che affrontano tutti i principali snodi del conflitto medio-orientale, dalla dichiarazione Balfour del 1917 fino all’anno 2000. Sami Adwan, pedagogista palestinese dell’Università di Betlemme, ha guidato per anni questo progetto insieme al collega israeliano Dan Bar-On, scomparso il 4 settembre scorso. Abbiamo chiesto al professor Adwan di riflettere insieme a noi sul significato e sui frutti di questo  lavoro.

Professore, perché un libro con due narrative separate e non un testo che le fonda per elaborare un’unica versione?Perché crediamo che l’obiettivo più importante oggi sia far capire che esiste la «storia dell’altro». Si tende in genere a rimuoverla o a considerarla per partito preso falsa. Invece è solo la traduzione di un’esperienza molto quotidiana: quando due di noi sono testimoni di un fatto qualunque, ciascuno lo racconta sottolineando un aspetto diverso. E a volte sono proprio questi particolari a offrire la chiave di lettura di quell’episodio. Ecco, lo stesso vale anche per la storia. Di qui l’importanza – soprattutto nel racconto di un conflitto – di accettare il metodo della doppia narrativa.

Qual è il periodo più recente analizzato con questo metodo dai vostri docenti?
Gli anni tra il 1990 e il 2000, quelli del processo di pace avviato a Oslo. Ed è un’analisi interessante, perché emergono molto bene i due sguardi diversi che hanno accompagnato quella fase. I palestinesi vedevano Oslo come un punto di partenza, la base per arrivare al proprio Stato indipendente e a essere liberi. Gli israeliani guardavano invece a Oslo come a un punto di arrivo, alla fine del conflitto che avrebbe portato stabilità. Il fallimento si spiega anche così.

Una volta completati i testi, come sta andando avanti ora il progetto?
Stiamo preparando una guida per gli insegnanti. Insieme al volume che metterà insieme in un testo unico i tre libretti. Stiamo inoltre sviluppando un nuovo approccio per diffondere il metodo della doppia narrativa: invitiamo studenti palestinesi provenienti da diverse scuole a incontrarsi per una giornata di studio utilizzando i nostri strumenti. E anche i docenti israeliani stanno facendo la stessa cosa. È un modo per far conoscere maggiormente questo metodo. Anche perché da nessuno dei due ministeri abbiamo avuto approvazioni formali che ci permetterebbero di diffonderlo direttamente nelle classi.

Quanti ragazzi finora hanno utilizzato i vostri testi?
È difficile stabilirlo. Abbiamo quattordici scuole, da una parte e dall’altra, che partecipano al progetto. Non usano però tutto il libro: sono gli insegnanti a selezionare il materiale e a proporlo. Possiamo dire che negli ultimi due anni due o tremila ragazzi hanno utilizzato questi materiali. In modi diversi: c’è chi propone due racconti, chi tre, chi quattro. Non essendo parte dei curriculum scolastici, non c’è il tempo per utilizzarli tutti. Ecco perché abbiamo pensato alle giornate di incontro tra studenti di scuole diverse.

Qual è la reazione dei ragazzi?
Variano da persona a persona. C’è chi sottolinea la distanza tra le due versioni più che i punti in comune. Altri dicono: la nostra versione sono fatti, la loro è solo propaganda. Alcuni dicono: adesso capiamo perché il conflitto è così difficile da risolvere. Altri ancora chiedono di incontrare i ragazzi che dall’altra parte hanno studiato la loro versione. Dunque si va dal sospetto fino all’accettazione. Ma anche accettazione per noi non vuol dire destrutturare la versione della propria parte. L’obiettivo è piuttosto portare i ragazzi e gli insegnanti a fare spazio all’esistenza di più narrative.

Che cosa ha significato, invece, per gli insegnanti partecipare a questo lavoro?
Per loro la fatica più grande è stata fare i conti con le proprie emozioni. Prendiamo, ad esempio, i fatti del 1948; per l’israeliano affrontarli significa parlare di un momento felice, del sogno che si realizza; per il palestinese, invece, stai parlando della catastrofe, del momento in cui il sogno e la speranza nel futuro si sono chiusi. È difficile per un insegnante separare il racconto dalle proprie emozioni. Inoltre, quando si presentano in classe, gli insegnanti devono affrontare le domande dei ragazzi. Alcuni li pressano. Chiedono: «Ma tu ci credi nella loro versione?». Nelle scuole palestinesi, c’è anche chi si alza e dice polemicamente: «Perché ci parlate di tutto questo? Fa parte della normalizzazione?». Dunque per i professori è una vera e propria sfida. Ma ciò che constatiamo è il fatto che tutto questo  li rende più consapevoli del proprio ruolo. Invitano gli studenti a guardare con sguardo critico a tutte le «versioni ufficiali». Sono molto più forti, più fiduciosi. E già questo è un risultato importante.

Che cosa ha significato lavorare a questo progetto proprio durante gli anni della seconda intifada?
In realtà l’idea era nata prima, durante gli anni dei negoziati di Oslo. Avevamo pensato a questo progetto come a un modo per gestire il dopo-conflitto. Col fallimento del processo di pace è diventato un modo per costruire la pace anche sotto il fuoco della battaglia. Certo, se si fosse arrivati a un accordo politico il lavoro  sulla «storia dell’altro» avrebbe avuto maggiore efficacia sui ragazzi. Ci rendiamo bene conto che – da quando il conflitto si è fatto di nuovo aperto – i ragazzi sono molto più influenzati dalla realtà che da quello che imparano a scuola. Però crediamo che comunque il progetto stia dando tre benefici: intanto il nuovo protagonismo degli insegnanti.  Poi il fatto di educare allo spirito critico: finché non diffonderemo davvero questo atteggiamento anche la didattica continuerà a perpetuare le dinamiche del conflitto. Infine il fatto che questi libri siano studiati da ricercatori e docenti universitari su temi pedagogici crea anche nuove dinamiche di confronto all’interno delle due società.

Il vostro progetto è guardato con grande attenzione anche fuori dal Medio Oriente. Che cosa l’ha colpita di più?
I nostri libri sono già stati tradotti in otto lingue. Recentemente siamo stati avvicinati da un membro del Congresso degli Stati Uniti, che vorrebbe far utilizzare i nostri volumi nelle scuole pubbliche dello Stato di New York e della Virginia. Ma oggi in Europa c’è anche chi ha preso il nostro lavoro come modello per affrontare una situazione diversa. In Germania – ad esempio – ci sono degli insegnanti dell’Est e dell’Ovest che stanno lavorando su un testo che racconterà come la riunificazione è stata vista dalle due parti. Anche questo è un risultato molto bello.

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