Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia
Lo splendido racconto del «roveto ardente» ancora una volta ci svela i tratti del volto di Dio.

Nelle braccia di un Dio che non ci abbandona

Paolo Curtaz
28 aprile 2006
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Mosè, liberatore da liberare, ha fatto la sua scelta: si è rifugiato nel suo mondo privato, non vuole più avere a che fare con la vita pubblica, politica. Travolto dalle sue ambizioni, trova una certa serenità nella vita semplice che sua moglie Zippora riesce a garantirgli. Alla fine del suo contorto percorso, da principe d’Egitto a beduino, Dio lo sta aspettando. Quanti «Mosè» ho conosciuto nella mia vita! Entusiasti e altruisti, sono stati bruciati dall’esperienza, delusi, ingannati, disincantati.
Ma, quando tutto sembra finito, Dio costruisce sulle rovine dei propri sogni infranti una nuova, sconvolgente realtà. Lo splendido racconto del rovo ardente ci svela, ancora una volta, i tratti del volto di Dio. Un roveto che arde, un fuoco in mezzo alle spine perché, come spiegano i rabbini, Dio soffre per il suo popolo. Il dialogo tra Dio e Mosè è straordinario: il Dio dei padri dice a Mosè di conoscere il dolore del popolo ridotto in schiavitù. Dio conosce, Dio sa, Dio vede. La Parola afferma perentoriamente l’interesse di Dio per l’umanità, si distanzia dalla visione asettica e teorica di una divinità posta al di sopra del destino dell’uomo che distrattamente, annoiata, volge lo sguardo verso le sofferenze umane. Il Dio che emerge dalla Scrittura è, invece, un Dio passionale e appassionato, che conosce. E interviene, direte voi. No. Mosè interverrà al posto di Dio, Mosè diventerà il braccio misericordioso di Dio per il popolo.
Questa prospettiva ci inquieta: non preghiamo Dio perché, appunto, ci risolva i problemi? Non siamo credenti e devoti proprio per questa ragione? Il Dio dei padri vede il dolore, e manda il fragile Mosè a liberare il popolo. Mosè rifiuta, ovvio. Il suo passato è duramente segnato dal fallimento, non vuole certo impegolarsi in una nuova avventura. «Chi sono io?», obietta a Dio. Ora Mosè è consapevole della propria fragilità. Come Elia sull’Oreb che si sente rivolgere da Dio la domanda «Che fai qui, Elia?», come la domanda posta dai farisei al Battista: «Chi sei tu?», come la rivelazione della natura profonda di Simone il pescatore, «Io ti dico: tu sei Pietro», il cammino della fede ci porta alla conoscenza intima di noi stessi, non per crogiolarci nelle nostre qualità o per schiantarci sotto il peso dei nostri difetti, ma per essere liberi e concreti, umili e operativi. Dio rivela il suo nome a Mosè: il nome, in Israele, non è un dato anagrafico, ma la confidenza dell’essenza che portiamo nel cuore. Dio si confida, si dice, si racconta, annulla la naturale distanza che sussiste fra creatore e creatura. Il suo nome, che ci sfugge nella sua completezza, è: Jahwè. Difficile da interpretare, il nome impronunciabile di Dio può significare: «Io sono colui che c’è», colui che è presente, che non si defila, che non ti abbandona.
Anche noi, come Mosè, siamo chiamati a sperimentare l’interesse di Dio per la storia dell’umanità, per la nostra storia, e ad accettare la proposta di collaborazione che Dio ci offre, per diventare, come Mosè, dei liberatori liberati dal proprio ego abnorme, e diventare, infine, la mano di Dio che accarezza il volto contratto dal dolore, che stringe forte la mano dello schiavo per liberarlo.

(L’autore è sacerdote della diocesi di Aosta e curatore del sito Internet www.tiraccontolaparola.it)

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