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Benedetto XVI. Insieme a Israele testimoni dell’unico Padre

Andrea Tornielli
10 aprile 2006
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Papa Ratzinger ha sempre riconosciuto a Israele un ruolo e un compito particolare nell'economia della Salvezza. E un legame inscindibile con il cristianesimo...


Se Giovanni Paolo II è stato il Papa che ha provocato cambiamenti epocali nel rapporto con gli ebrei – basti pensare alla storica visita alla sinagoga di Roma nel 1986 e al viaggio in Israele del 2000 – il suo successore Benedetto XVI è uno dei teologi che più hanno approfondito il rapporto unico e inconfondibile che lega i cristiani con il popolo dell’antica Alleanza. Per Papa Ratzinger, infatti, il legame che unisce cristiani ed ebrei è qualcosa di assolutamente unico rispetto a qualunque altra religione. Benedetto XVI, nei suoi interventi e nei suoi libri, ha infatti sempre riconosciuto ai «fratelli ebrei» il compito di testimoniare al mondo il Dio unico e vero. Possiamo affermare, dunque, con le parole di Piero Stefani, biblista e docente di «dialogo con l’ebraismo» all’Istituto di studi ecumenici di Venezia, che dagli scritti di Ratzinger emerge «un riconoscimento della permanenza della vocazione di Israele, che fa del popolo ebraico qualcosa di distinto dagli altri popoli, una vocazione che non viene negata dall’accettazione o meno di Cristo. Per Ratzinger – spiega ancora lo studioso – il rapporto fra Chiesa ed ebraismo non è tanto una questione di richiesta di perdono nei confronti degli ebrei, quanto il riconoscimento che l’eredità di Abramo è una benedizione promessa al popolo ebraico. E l’eredità degli ebrei continua in Gesù Cristo e nella Chiesa poi».

Per un imperscrutabile disegno provvidenziale, sia Giovanni Paolo II che il suo successore hanno conosciuto da vicino il totalitarismo nazista e la persecuzione degli ebrei perpetrata negli anni Trenta e Quaranta del secolo appena concluso. È un dato di fatto da tenere presente nel leggere e interpretare i loro gesti e i loro atti. Non si comprendono la visita alla sinagoga, la richiesta di perdono giubilare, la storica visita in Terra Santa con il Papa che prega davanti al Muro Occidentale o sosta in silenzio davanti alla fiamma perenne dello Yad Vashem, senza l’esperienza vissuta in Polonia dal giovane Karol Wojtyla.

Anche Joseph Ratzinger ha potuto conoscere l’odio antiebraico di quell’ideologia pagana. Il 29 dicembre 2000 sull’Osservatore Romano l’allora cardinale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede scriveva: «Nella storia della cristianità le relazioni già difficili degenerarono ulteriormente, dando origine in molti casi addirittura ad atteggiamenti di antigiudaismo, che ha prodotto nella storia deplorevoli atti di violenza. Anche se l’ultima esecrabile esperienza della Shoah fu perpetrata in nome di un’ideologia anticristiana, che voleva colpire la fede cristiana nella sua radice abramitica, nel popolo di Israele, non si può negare che una certa insufficiente resistenza da parte dei cristiani a queste atrocità si spiega con l’eredità antigiudaica presente nell’anima di non pochi cristiani».

«Forse proprio a causa della drammaticità di quest’ultima tragedia – osservava Ratzinger – è nata una nuova visione della relazione fra Chiesa e Israele, una sincera volontà di superare ogni tipo di antigiudaismo e iniziare un dialogo costruttivo di conoscenza reciproca e di riconciliazione. Un tale dialogo, per essere fruttuoso, deve cominciare con una preghiera al nostro Dio perché doni prima di tutto a noi cristiani una maggiore stima e amore verso questo popolo, gli israeliti…».

All’indomani dell’elezione, Benedetto XVI ha inviato un messaggio al rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni: «Il 19 aprile 2005 i cardinali di Santa Romana Chiesa mi hanno eletto vescovo di Roma e pastore della Chiesa universale. Nell’annunciarle la mia elezione, e l’inaugurazione solenne del mio pontificato, domenica 24 aprile, confido nell’aiuto dell’Altissimo per continuare il dialogo e rafforzare la collaborazione con i figli e le figlie del popolo ebraico». Un gesto molto apprezzato dalla comunità ebraica romana e definito «inusuale nella storia dei rapporti tra ebrei e cristiani» dal rabbino Di Segni.

Durante l’estate, un brutto incidente diplomatico, ingigantito da reazioni fuori misura, era sembrato raffreddare questo incoraggiante inizio. Domenica 24 luglio, nel breve di scorso prima dell’Angelus recitato dalla Val d’Aosta, dove si trovava in vacanza, Papa Ratzinger aveva ricordato i recenti attacchi terroristici che avevano colpito i Paesi occidentali o i turisti occidentali (le bombe di Londra e di Sharm el Sheikh). Nel testo non era citato l’attentato avvenuto in quei giorni a Netanya, in Israele. La reazione del governo di Gerusalemme era stata immediata e pesante. In una nota del ministero degli Esteri si parlava di «deliberata omissione» e si aggiungeva: «La cosa potrebbe essere interpretata come un licenza per la realizzazione di attacchi terroristici contro gli ebrei». Il Vaticano, pochi giorni dopo, aveva risposto in modo altrettanto fermo, e soltanto una lettera del premier Ariel Sharon, recapitata dall’ambasciatore presso la Santa Sede Oded Ben Hur al cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato, aveva chiuso la questione.

Il mese successivo, durante il viaggio a Colonia per la Giornata mondiale della Gioventù, Benedetto XVI ha voluto includere una visita alla sinagoga e in quella occasione ha parlato della necessità di trasmettere alla nuove generazioni che non hanno conosciuto l’orrore della Shoah il rispetto e l’amicizia verso gli ebrei: «È  un compito di speciale importanza in quanto oggi, purtroppo emergono nuovamente segni di antisemitismo e si manifestano varie forme di ostilità generalizzata verso gli stranieri». Papa Ratzinger aveva anche aggiunto che il dialogo con i fratelli ebrei «se vuole essere sincero, non deve passare sotto silenzio le differenze esistenti o minimizzarle: anche nelle cose che a causa della nostra intima convinzione di fede, ci distinguono gli uni dagli altri, anzi proprio in esse – aveva spiegato Benedetto XVI – dobbiamo rispettarci a vicenda».

Ma è nella riflessione teologica del cardinale Ratzinger, come abbiamo accennato all’inizio, che si sviluppa il legame inscindibile tra cristiani ed ebrei, alla luce del quale vanno letti i passi di apertura, di simpatia e di profondo rispetto che Benedetto XVI ha manifestato verso il popolo dell’antica Alleanza. Nel 1998, il cardinale aveva dedicato un libro a questo argomento, tradotto in italiano nel 2000 (La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, San Paolo). In quel testo, il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede commentava il Catechismo della Chiesa cattolica e spiegava: «Laddove il conflitto di Gesù con il giudaismo del suo tempo viene presentato in maniera superficialmente polemica, si finisce per derivarne un’idea di liberazione che può intendere la Torah solo come una servitù a riti e osservanze esteriori. La visione del Catechismo, tratta principalmente da Matteo ma in definitiva determinata dall’insieme della tradizione evangelica, porta logicamente a una prospettiva del tutto diversa: “La Legge evangelica dà compimento ai comandamenti della Legge. Il discorso del Signore sulla montagna, lungi dall’abolire o dal togliere valore alle prescrizioni morali della Legge antica, ne svela le virtualità nascoste e ne fa scaturire nuove esigenze: ne mette in luce tutta la verità divina e umana. Esso non aggiunge nuovi precetti esteriori, ma arriva a riformare la radice delle azioni, il cuore, là dove l’uomo sceglie tra il puro e l’impuro, dove si sviluppano la fede, la speranza e la carità (…). Così il Vangelo porta la Legge alla sua pienezza mediante l’imitazione della perfezione del Padre celeste”».

«Gesù – scriveva ancora il futuro Papa – non ha agito come un  liberale, che raccomanda e pratica lui stesso un’interpretazione della Legge aperta e accomodante. Nel confronto tra Gesù e le autorità giudaiche del suo tempo non siamo di fronte a un liberale e una gerarchia chiusa e irrigidita nel proprio tradizionalismo. Una tale ottica, tanto diffusa, misconosce alla radice il conflitto del Nuovo Testamento; in tal modo non si rende ragione né di Gesù né di Israele».

«La sua apertura alla Legge – aggiungeva Ratzinger – Gesù l’ha piuttosto realizzata in senso pienamente teologico, nella consapevolezza e con la pretesa di agire nella più intima unità con Dio, il Padre, proprio in quanto Figlio, di agire cioè nella piena autorità di Dio. Solo Dio, infatti, poteva interpretare in modo tanto radicalmente nuovo la Legge e proclamare questa trasformazione e conservazione come il significato da lui realmente inteso». In questo contesto, Ratzinger rifletteva anche sul significato della morte in croce del Nazareno: «Il peccato è responsabile della croce» e «la croce è la vittoria sul peccato da parte dell’amore, più forte, di Dio».

«Fin da bambino – rivelava il futuro Papa – benché naturalmente non sapessi nulla di tutte le nuove conoscenza che sono state riassunte nel Catechismo – mi risultava incomprensibile che alcuni volessero trarre dalla morte di Cristo una condanna dei giudei, perché questo concetto mi era già entrato nell’anima come qualcosa capace di donarmi una profonda consolazione: il sangue di Gesù non pretende alcuna vendetta, ma chiama tutti alla riconciliazione».

Concludendo la sua riflessione sul rapporto tra ebraismo e cristianesimo, Ratzinger scriveva: «Al lettore medio verrà in mente il luogo comune secondo cui la Bibbia degli ebrei, “l’Antico Testamento”, accomuna ebrei e cristiani, mentre la fede in Gesù Cristo come figlio di Dio e redentore li separa. Tuttavia si può facilmente vedere quanto sia superficiale una simile distinzione tra ciò che unisce e ciò che separa. Infatti va detto anzitutto che mediante Cristo la Bibbia di Israele è giunta ai non ebrei ed è divenuta anche la loro Bibbia. Quando la Lettera agli Efesini dice che Cristo ha abbattuto il muro che divideva i giudei dalle altre religioni del mondo e ha ristabilito l’unità, non si tratta di vuota retorica teologica, ma di una constatazione del tutto empirica, anche se nel dato empirico non può essere compresa l’intera portata dell’affermazione teologica. Infatti mediante l’incontro con Gesù di Nazareth il Dio di Israele è divenuto il Dio di tutti i popoli della terra. Attraverso di lui si è di fatto adempiuta la promessa secondo cui i popoli avrebbero adorato il Dio di Israele come l’unico Dio, secondo cui il “monte del Signore” sarebbe stato innalzato al di sopra di tutti gli altri monti».

«Se Israele non può vedere in Gesù il figlio di Dio, come i cristiani – concludeva Ratzinger – non gli è però assolutamente impossibile riconoscere in lui il servo di Dio, che porta ai popoli la luce del suo Dio. E, viceversa, anche se i cristiani desiderano che Israele possa un giorno riconoscere Cristo come il figlio di Dio, superando così la frattura che ancora li divide, essi dovrebbero comunque riconoscere il piano di Dio, che ha affidato chiaramente a Israele una sua missione nel “tempo dei pagani”. I Padri la sintetizzano nel modo seguente: Israele deve restare di fronte a noi come il primo possessore della sacra Scrittura, per rendere proprio così testimonianza davanti al mondo».

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