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Ai confini della speranza

Anna Clementi
22 novembre 2018
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Ai confini della speranza
Un bimbo nel campo di Moira. (foto A. Clementi)

Un viaggio dentro l’hotspot di Moria, a Lesbo, e nel campo di Skaramagas, alla periferia di Atene, condividendo la quotidianità assieme alle migliaia di rifugiati intrappolati nei campi profughi di Grecia


Mentre in tutto il mondo si celebrano le giornate internazionali della donna, del bambino, del rifugiato, qui a Moria ogni giovedì festeggiamo la giornata internazionale del pomodoro». Abu Mohammad sorride, sarcastico, mentre attende che abbia inizio la distribuzione settimanale di pomodori. «Ogni giovedì mi metto sopra questa piccola collina e osservo l’umiliazione a cui veniamo quotidianamente sottoposti. Tra un attimo assisteremo alla lotta fratricida per il cibo».

Ci sediamo a terra assieme ad Abu Mohammad e osserviamo quanto avviene davanti ai nostri occhi. Da un lato ci sono le persone bloccate tra le inferriate, come animali in gabbia, che, urlando e spingendosi uno sull’altro, attendono disordinatamente in fila; dall’altro i poliziotti, muniti di scudi antisommossa e di manganelli, a monitorare l’area.

All’arrivo dei pullmini carichi di cibo, la situazione si trasforma: alcuni uomini arrivati all’ultimo si arrampicano lungo le inferriate e si calano dall’alto per aggiudicarsi la propria porzione. Altri tentano di entrare dall’uscita e vengono spinti fuori a calci e a pugni da chi attende da ore. Scoppia una rissa tra una decina di ragazzi. Litigano per chi ha diritto a prendere per primo i pomodori. La polizia interviene, li picchia violentemente coi manganelli e se li porta via. Un uomo viene gettato con forza a terra, per non aver rispettato il proprio turno. Ad un altro, con una grave disabilità a una gamba, vengono calati i pantaloni. La madre, in lacrime davanti a tale affronto, chiama a raccolta la propria comunità e in pochi minuti scoppia una rissa tra curdi e arabi. Dieci feriti. A pochi metri, donne e bambini osservano, tranquille, la scena, ormai parte della loro quotidianità.

Siamo nell’hotspot di Moria, nell’isola greca di Lesbo, principale luogo di arrivo per chi intraprende il viaggio via mare dalle coste turche. Originariamente creato come centro di transito per i migranti sbarcati nell’isola, con una capacità massima di 3.100 persone, questo campo, a seguito della chiusura della rotta balcanica, è stato trasformato in un vero e proprio hotspot e, a luglio 2018, per la prima volta dalla sua istituzione, ha raggiunto la capienza di quasi 9 mila rifugiati.

Dopo la firma dell’accordo tra Unione Europea e Turchia a marzo 2016, la Grecia è stata costretta a modificare la propria normativa in materia di asilo con l’emanazione della decisione n. 4375 del 31 maggio 2016 del Servizio d’Asilo – organo subordinato al ministero delle Politiche migratorie – che ha imposto ai nuovi arrivati la cosiddetta restrizione geografica, cioè il divieto di spostarsi nella Grecia continentale e l’obbligo di permanenza nelle sei isole dell’Egeo (Lesbo, Samo, Rodi, Kos, Chios e Leros) fino al completamento della richiesta di asilo. Questa politica di contenimento ha portato Moria al limite: l’ong Medici Senza Frontiere, che gestisce una clinica mobile appena fuori dall’hotspot, ha lanciato numerosi appelli chiedendo la chiusura del campo e un’evacuazione di emergenza di tutte le persone vulnerabili, in particolare i bambini.

«Da Moria non si esce. È una prigione, fisica, mentale. È come camminare in equilibrio su una fune, senza sapere quando saremo autorizzati a toccare terra. Ho una famiglia, ho dei figli. Che cosa sarà di noi?». Abu Mohammad è scappato dalla città siriana di Deir al-Zor tre anni fa, dopo venti lunghi mesi sotto i bombardamenti. Il giorno in cui è caduto un colpo di mortaio nella casa dei vicini, ha capito che doveva andarsene. È partito assieme alla moglie e ai suoi quattro figli verso la Turchia. Non voleva andare in Europa. Non ci aveva mai nemmeno pensato. Ha così deciso di stabilirsi nella città turca di Antiochia, non lontana dal confine siriano, nella speranza di poter presto tornare a casa. Ha trovato un lavoro come muratore ma i soldi non bastavano per pagare l’affitto e per sfamare la famiglia. Così si è visto costretto a mandare a lavorare anche suo figlio Mohammad, 11 anni, mani piccole, delicate, fragili. Un’ora di pianto di mattina e dieci di lavoro in una fabbrica di tappeti, assieme a tanti altri ragazzini siriani ancora imberbi. 400 dollari al mese, contro un appartamento che ne costava 500. A novembre 2017 Abu Mohammad ha deciso di partire. Ha capito che indietro non poteva tornare, che in Turchia non ci poteva stare. Ha chiesto un prestito di 2 mila dollari ad alcuni familiari e ha pagato un trafficante per superare su un piccolo gommone instabile quei pochi chilometri di mare che separano l’isola di Lesbo dalle coste turche.

La politica di contenimento entrata in vigore con la 4375/2016 obbliga i nuovi arrivati a Moria a rimanere nell’isola per tutta la durata della procedura che, a seconda della nazionalità di appartenenza, può durare anche più di un anno. L’unica altra modalità legale per uscire da Moria in tempi più brevi senza perdere il diritto all’accoglienza una volta arrivati nella Grecia continentale è quella di essere riconosciute persone vulnerabili e di ottenere così un timbro nero sul permesso di soggiorno che attesti la fine della restrizione geografica.

Ogni mese, i funzionari dell’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (acronimo inglese Easo) che forniscono supporto ai rappresentanti del ministero greco esaminano i fascicoli e rinnovano il permesso di soggiorno degli abitanti di Moria, ammassati in coda dietro a un filo spinato. Timbro rosso e nero: nessuna vulnerabilità, nuova attesa, almeno fino al mese successivo. Timbro nero: vulnerabilità riconosciuta, inserimento del nominativo nella lista delle persone che possono lasciare l’isola.

Umm Sufiyan piange. Era da giorni che aspettava il 15 del mese, data di rinnovo del suo permesso da richiedente asilo. Questa volta ci sperava davvero. Aveva fatto tutto quello che le era stato consigliato. Si era fatta inviare dalla Siria i referti medici che documentavano che aveva avuto un tumore al seno e che aveva bisogno di controlli mensili. Era andata, a pagamento, da un medico privato a Mitilene per farsi visitare e farsi mettere per iscritto che a Moria non le venivano garantite le cure mediche di cui aveva bisogno. Ora guarda incredula il nuovo permesso di soggiorno col timbro rosso e nero appena stampato. Dovrà aspettare almeno un altro mese. E senza ulteriori documenti che provino la sua vulnerabilità, sarà bloccata a Moria per tutta la durata della richiesta d’asilo. Quando potrà riabbracciare i suoi tre figli che da due anni la aspettano in Germania?

«Domani passa tutto. Non possiamo permetterci di piangere per più di un giorno. Dobbiamo resistere, pensare al futuro, anche se Moria annienta la speranza, uccide corpo e anima». Umm Mohammad sospira, sapendo bene che anche lei, prima di ottenere il timbro nero, ha dovuto aspettare ben cinque mesi nonostante fosse incinta, e avesse con sé i suoi quattro figli, tutti sotto i 10 anni. Ora attende solamente di essere trasferita in un campo della terraferma o direttamente in un alloggio gestito dall’Alto Commissariato Onu per i rifugiati.

Nel frattempo, come tutti, aspetta in un container di 20 metri quadrati che condivide con altre tre famiglie, per un totale di 15 persone. «Noi siamo tra i più fortunati. Ci sono container con 25 persone e poi centinaia di famiglie che vivono in tende di plastica, su terreni scoscesi o sopra le acque di scarico dei bagni, peggio degli animali».

Secondo Medici Senza Frontiere, sono proprio le spaventose condizioni di vita dentro il campo ad essere alla base del tracollo fisico e psicologico di molte persone. In base ai dati dell’équipe psicologica che opera fuori dall’hotspot, circa un quarto dei bambini visitati tra febbraio e giugno 2018, ha avuto episodi di autolesionismo, ha tentato il suicidio o ha pensato di togliersi la vita, mentre molti altri soffrono di mutismo, scatti d’ira, incubi costanti e attacchi di panico. Anche molti giovani, soprattutto gli uomini soli, sono considerati ad alto rischio.

Samir, 25 anni, ha tentato due volte il suicidio. Ci mostra le cicatrici sui polsi, ancora con grumi di sangue fresco e vene pulsanti. Ha lasciato in Siria la giovane moglie e il figlio disabile di cinque anni. Vuole raggiungere l’Olanda e chiedere il ricongiungimento familiare. Sa di non avere molto tempo. Idlib è sotto assedio e ogni giorno può essere prezioso. Ma da mesi non riesce ad uscire da Moria e la sua mente ha smesso di funzionare. «Vivo in una tenda, siamo in sei, ammassati uno sull’altro, senza acqua né elettricità. Dopo due mesi qui ho smesso di sperare».

E se il sogno di chi è bloccato a Moria è quello di imbarcarsi sulla nave diretta ad Atene, chi si trova rinchiuso nei campi profughi della terraferma cerca ogni soluzione per andarsene dalla Grecia.

Skaramagas è il più grande campo della Grecia continentale con i suoi 400 container da 25 metri quadrati l’uno che, secondo gli standard umanitari minimi, possono ospitare fino a sette persone, per un totale di circa 3 mila abitanti. Sorge alla periferia di Atene, lungo l’autostrada per Corinto, in un calda e assolata zona portuale, circondata da gru e magazzini di deposito merci. Nonostante tutto, è uno dei campi più ambiti, soprattutto per i siriani, sia per chi arriva dalle isole greche sia per chi affronta il viaggio via terra attraverso il fiume Evros, al confine tra Grecia e Turchia. Famoso per la sua vicinanza ad Atene, per la sua vita serale sul «lungomare» pieno di ristoranti improvvisati che propongono specialità curdo-siriane e per l’attivissima rete di trafficanti, Skaramagas offre un’interessante e sempre aggiornata finestra sui movimenti di chi desidera fermarsi in Grecia e di chi cerca invece di raggiungere gli altri Stati dell’Unione Europea.

«Sono stata trasferita da Moria a Skaramagas cinque mesi fa. All’inizio avevo tenuto nascosta la mia gravidanza, non volevo che nessuno sapesse quello che avevo subito in Turchia. Quando mi sono resa conto che da Lesbo non c’era via di uscita, ho dovuto dirlo alle autorità competenti per essere riconosciuta vulnerabile», racconta Hana, 26 anni, eritrea, mentre tiene in braccio la piccola Shireen, di appena 20 giorni. «Ho avuto complicanze durante il parto e la bimba è rimasta per troppo tempo senza ossigeno. Ora per fortuna sta bene, ma deve essere continuamente monitorata. Per il momento sono qui, in questo container assieme ad altre tre persone, nella speranza di essere trasferita in un luogo più adatto per una neonata».

Rozeur, curdo siriano di Afrin, è invece arrivato via terra assieme ai suoi genitori dopo quattro giorni di cammino nei boschi alla frontiera tra Turchia e Grecia. Un trafficante li ha portati direttamente a Skaramagas e venduto loro un container per 500 euro. Vorrebbero proseguire verso la Germania attraverso i confini di terra, per Albania, Montenegro, Bosnia e Croazia, ma 1.500 euro a testa sono davvero tanti. Ora hanno bisogno di riposarsi ma progettano già di ripartire.

Anche Sayed, afghano, padre di 9 figli, sta cercando di escogitare un modo per lasciare la Grecia. Il suo piano era quello di stabilirsi ad Atene, ma le cose sono andate diversamente dalle sue aspettative. «Abbiamo l’audizione col Servizio per l’Asilo a novembre 2021, vi sembra possibile? Tre anni solo per chiedere asilo. Prendiamo dal governo greco 550 euro al mese, ogni mese ci indebitiamo di almeno 200 euro. Non è vita».

Nonostante le condizioni di vita dei rifugiati in Grecia stiano peggiorando sempre più e nonostante l’Unione Europea abbia di fatto decretato la fine dell’emergenza migratoria tagliando molti fondi alle organizzazioni non governative che operano nel Paese, il flusso di richiedenti asilo non accenna a diminuire: nei primi sette mesi del 2018 gli arrivi sono aumentati dell’88 per cento rispetto allo stesso periodo del 2017, con 16.200 persone arrivate via mare (di cui 5.750 siriani, 3.450 iracheni, 2.450 afghani, 800 congolesi e 600 palestinesi) e 9.800 via terra. La Grecia si trova ora schiacciata tra la gestione emergenziale di un flusso di migranti sempre crescente e l’organizzazione di un piano strutturale di accoglienza che richiede di assorbire nel tessuto sociale greco, già profondamente danneggiato dalla crisi economica e dall’alto tasso di disoccupazione, un consistente numero di richiedenti asilo e di rifugiati che, per mancanza di vie legali per uscire dal Paese, si trova bloccato sul suolo greco.

Nel prossimo futuro, il Paese ellenico dovrà affrontare nuove sfide: da un lato dovrà fare i conti con l’accordo raggiunto ad agosto 2018 con la Germania, ancora in attesa di firma ufficiale, che prevede di rimandare in Grecia tutti i migranti che hanno presentato richiesta di asilo in territorio greco prima di arrivare in Germania. Dall’altro, rimane da capire se ci sarà una nuova ondata di profughi siriani verso l’Europa, in vista della probabile offensiva delle truppe di Assad, appoggiate dalla Russia, alla città siriana di Idlib, che potrebbe causare 800 mila sfollati. Ognuno con un nome, una storia, un passato. E un futuro da costruire.

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