Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

Nasāra, una parola segno del martirio

Camille Eid
18 settembre 2014
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I cristiani sono dei Nasāra oppure dei Masihiyyùn? La domanda si è riproposta quando il sedicente Stato islamico (Is) ha marchia­to le case dei cristiani di Mosul con la lettera Nùn, la “N” araba, prima di co­stringerli alla fuga. Una lettera che da «marchio d’infamia» è diventata il simbolo di una campagna internazionale a favore dei cristiani perseguitati. Tutti ormai sappiamo che quella lettera è l’iniziale della parola Nasāra, anche se rimane controversa l’origine del termine. Se sia, cioè, un dispregiativo o un semplice sinonimo di Masihiyyùn, seguaci del Masìh, cioè il Messia. Non è, infatti, noto come i cristiani d’Arabia – parliamo del VI-VII secolo – si autodefinivano. La parola Nasāra ricorre raramente prima dell’Islam. La troviamo in un verso del poeta cristiano Jabir bin Hunay e in alcune poesie di Umayya bin Abi al-Salt e di Hassan bin Thabit, poeti vissuti tuttavia in tarda età pre-islamica. Il termine ricorre 14 volte nel Corano, sempre al plurale, di cui 12 volte insieme alla parola «ebrei»: 7 volte nella sura della Vacca, 5 in quella della Mensa, una ne Il Pentimento e Il Pellegrinaggio. Un famoso versetto (Mensa, 82) mette la parola in bocca agli stessi cristiani. «Troverai che i più cordialmente vicini a coloro che credono sono quelli che dicono: “Siamo Nasāra!”. Questo avviene perché fra di loro vi sono preti e monaci ed essi non sono superbi».

La parola ha creato non pochi problemi per i linguisti arabi. Sul Lisàn al-‘Arab, il più voluminoso vocabolario arabo, si legge che Nasrāni (il singolare di Nasāra) è l’abitante di un paese del Levante che esso chiama con quattro nomi diversi, tra cui Nasrān, con l’evidente obiettivo di risolvere l’enigma dell’aggettivo. Gli esegeti musulmani hanno cercato la soluzione nella radice NSR («vincere» o «sostenere») e i suoi derivati, richiamando il versetto 14 della sura dei Ranghi serrati in cui viene ripetuta la parola Ansàr, che significa «ausiliari» o «partigiani»: «O voi che credete! Siate gli ausiliari di Dio, così come disse Gesù figlio di Maria agli apostoli: “Chi saranno gli ausiliari miei verso Dio?” Ed essi risposero: “Noi siamo gli ausiliari di Dio!“». Anzi. Un teologo radicale ha visto nel passaggio da Ansār a Nasāra una sorta di degradazione semantica, visto che il paradigma CaCāCa (in cui la C sta per una consonante qualsiasi) indica sempre persone colpite da difetti, come in Kasāla, Sakāra, Nadāma, che traducono «pigri, ubriachi, pentiti».

In tal caso l’uso coranico di Nasāra non sarebbe altro che una «punizione divina» per aver dato a Gesù gli attributi di Dio. La diatriba ricorda da vicino quella che nelle lingue europee riguarda l’uso alternativo di Nazoraios (Ναζωραῖος) e Nazarenos (Ναζαρηνός) per riferirsi a Gesù di Nazareth nella Bibbia greca, nel quale alcuni studiosi hanno visto l’etimo di nazoreo o nazirita, ossia l’ebreo consacrato. Gli Atti degli Apostoli (24, 5) ricordano l’episodio del processo di Paolo davanti a Felice in cui l’avvocato Tertullo esordisce dicendo: «Abbiamo scoperto che quest’uomo è una peste, fomenta continue rivolte tra tutti i Giudei che sono nel mondo ed è capo della setta dei Nazorei». È quindi probabile che questo appellativo sia passato in arabo sotto la forma di Nasāra oppure, come sostengono alcuni studiosi, che fosse relativo a una setta giudeo-cristiana diffusasi nell’Arabia pre-islamica. Nazareni, ausiliari, cristiani giudaizzanti: quale che sia l’origine della parola, è chiaro che i jihadisti intendono con essa un marchio della vergogna. Che non sarà mai tale per chi lo subisce, ma solo per coloro che lo impongono.

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