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La croce e la speranza

Giampiero Sandionigi
3 giugno 2014
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La croce e la speranza
Il patriarca latino di Gerusalemme, mons. Fouad Twal, davanti alla basilica dell'Agonia, al Getsemani, il 26 maggio scorso.

Quattro volte nel corso del breve soggiorno di Papa Francesco in Terra Santa, il patriarca latino di Gerusalemme, mons. Fouad Twal, ha preso pubblicamente la parola per dargli il benvenuto nel territorio della diocesi, che si estende su Israele, Territori Palestinesi, Giordania e Cipro. Rapide pennellate, quelle del patriarca, che hanno toccato temi cari alla Chiesa latina in questo angolo di mondo. All’inizio della messa allo stadio internazionale di Amman, Twal ha accolto il Papa nella propria terra natale osservando che della sua diocesi «la Giordania rappresenta la parte più grande: più famiglie, più istituzioni, più sacerdoti e seminaristi, e non ci mancano pure tante sfide».

Così come la Chiesa locale – ha puntualizzato il patriarca – «è ridotta per estensione, esigua per numero di abitanti, povera in fonti di ricchezza, in situazione di povertà da sempre, dai tempi di San Paolo. Ma è ricca nel suo elemento umano, pieno di buon senso, ricca di vocazioni sacerdotali e religiose, esemplare nella sua ospitalità verso gli stranieri, gli oppressi, i rifugiati e di quanti cercano lavoro».

In serata un nuovo intervento all’interno della grande chiesa che il patriarcato latino sta ancora ultimando in riva al fiume Giordano. Lì mons. Twal ha presentato al Papa gruppi di malati e di profughi (molti i bambini), menzionando tra l’altro il lavoro della Caritas giordana «braccio destro della Chiesa».

  Il tema dell’attenzione ai minori è tornato domenica 25 nelle parole del patriarca latino alla fine della messa in piazza della Mangiatoia a Betlemme. Facendo eco al Papa, che aveva incentrato l’omelia proprio su quel «segno» che per noi sono, o dovrebbero essere, i bambini, Twal ha detto: «Tanti sono ormai i bambini, che i grandi di questo mondo hanno costretto a vivere errando, e che sono spesso abbandonati: bambini senza casa, senza genitori, obbligati a correre sulle strade polverose dei campi dei rifugiati, perché non hanno più né case né tetti che li proteggano». Chiaro il riferimento alla situazione dei giovani palestinesi. «I nostri giovani hanno sperimentato, sulle orme del Divino Bambino, l’emigrazione, la fame, il freddo e spesso anche la demolizione delle proprie case. (…) Come non ricordare e pregare per i tantissimi prigionieri che affollano le carceri…».

Al termine di questa Messa, la diocesi, accogliendo la richiesta di Francesco, ha invitato alla tavola del Papa un gruppo di famiglie e di giovani in qualche modo rappre- sentativi della realtà palestinese ferita dal pluridecennale conflitto con Israele. Tra gli altri anche Elias Abu Mohor e sua moglie Juliet, con le due figlie Isabel ed Elizabeth, abitanti di Beit Jala, un sobborgo di Betlemme ai piedi della collina di Cremisan, oasi di verde e di pace famosa anche per il vino che i padri salesiani vi producono da molti decenni. L’area è oggetto di una battaglia legale che ha risonanza anche al di fuori della Terra Santa: ricorrendo ai tribunali israeliani, la popolazione palestinese cerca di ottenere che il muro di separazione in via di costruzione non passi sulle loro terre ma più a nord, risparmiando Cremisan e i loro poderi agricoli (cfr. Terrasanta, maggio-giugno 2013, p. 23). Da tempo questa volontà di resistenza viene espressa anche con una messa all’aperto celebrata tra gli ulivi della collina dal parroco, padre Ibrahim Shomali.

Nella basilica dell’Agonia, al Getsemani, nel pomeriggio del 26 maggio, il patriarca latino ha presentato al Papa i religiosi, religiose e seminaristi presenti in rappresentanza di tanti altri: «Con Lei si raduna una parte dei nostri cari consacrati, religiosi e religiose e seminaristi, rappresentanti di circa un centinaio di differenti congregazioni. Essi sono la nostra forza, la nostra ricchezza. Con la loro vita, la loro croce quotidiana e la loro gioia di essere consacrati, perpetuano a piccole dosi quotidiane, il mistero di salvezza, vita, croce, morte e risurrezione».

«Come Gesù nel Getsemani, i nostri cari consacrati, parte integrante della Chiesa locale, spesso si sentono soli e abbandonati. Attraverso la tua persona e la tua voce, chiediamo al mondo cristiano e ai nostri fratelli vescovi, più vicinanza, più solidarietà e senso di appartenenza a questa Chiesa Madre».

Un esempio delle frustrazioni a cui il patriarca fa cenno è offerto da una lettera dai toni accorati che i sacerdoti palestinesi del patriarcato latino hanno indirizzato al Papa, pochi giorni prima del suo arrivo a Gerusalemme.

Gli estensori del testo spiegano che il clero del patriarcato è composto da preti palestinesi, giordani e di altre nazionalità. Queste ultime due categorie per operare in territorio israeliano hanno dovuto ottenere un regolare visto governativo. Per quanto sia a volte difficile da ottenere, il visto consente ampia libertà di movimento e azione. I venti sacerdoti palestinesi autoctoni, invece, si trovano assoggettati a tutte le difficoltà di movimento imposte dagli apparati di sicurezza israeliani ai loro connazionali. Tutto ciò «penalizza pressoché totalmente la nostra missione pastorale». Oggi la delegazione apostolica rilascia ai preti un lasciapassare, che non viene preso neppure in considerazione dai soldati al posto di blocco e quindi risulta inefficace. I sacerdoti palestinesi chiedono che il Vaticano faccia sentire con maggior forza la propria voce affinché il lasciapassare venga riconsciuto da Israele o, in alternativa, venga loro rilasciata la carta d’identità riservata ai cittadini palestinesi di Gerusalemme.

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