Parliamoci chiaro: i soldati statunitensi costituivano un esercito d’occupazione e siamo tutti contenti che se ne siano andati. Inutile negare, però, che tra i cristiani vi è molta preoccupazione per il futuro. Molta. Perché né il governo centrale né le forze politiche sembrano in grado di garantire lo sviluppo e la sicurezza dell’Iraq». La voce di monsignor Georges Casmoussa arriva nitida da Mosul, città a ridosso del Kurdistan iracheno, dove l’arcivescovo emerito della diocesi siro-cattolica (retta ora da mons. Boutros Moshe), ha voluto sempre rimanere nonostante minacce, intimidazioni e persino un rapimento-lampo nel 2005. Anche ora rimane, cercando di rincuorare i suoi fedeli.
«Il problema – spiega in una conversazione telefonica – sono le macerie e i fallimenti lasciati dietro di sé dalla missione americana. E poi un governo che non riesce o non vuole governare». Persino la comunità internazionale, dopo tanto interventismo, sembra lavarsi le mani dell’Iraq, inteso come popolo e nazione: «L’Occidente è più interessato ad accordi economici e commerciali che a fare pressioni perché vengano rispettati i diritti umani e delle minoranze», osserva il presule..
Sono passate solo poche settimane dal ritiro delle truppe statunitensi, e già una sanguinosa battaglia dilaga soprattutto nelle regioni a popolazione mista, sciita e sunnita, come ad esempio è Baghdad; il computo quotidiano delle vittime fa rabbrividire, tra attentati, agguati e uccisioni, a dispetto dei 900 mila soldati e poliziotti iracheni schierati a protezione di una popolazione di 26 milioni di persone. I fragili equilibri creati nella operazione «di pace» americana, durata otto anni e otto mesi, si sono frantumati in poche ore, anche a livello politico: il presidente iracheno sciita Nouri Al Maliki ha emesso un mandato di cattura contro il vicepresidente sunnita, Tarik Al Hascemi, accusandolo di essere a capo di un gruppo terroristico. Al Hashemi si è rifugiato nel Kurdistan, dove gode della protezione delle autorità locali, in un’inedita, nuova alleanza tra curdi e sunniti, acerrimi nemici sotto il regime di Saddam Hussein. In questo quadro, la minoranza cristiana rischia di finire, ancora una volta, in mezzo al fuoco incrociato. «La paura è percepibile», ammette mons. Casmoussa.
In alcune zone del Paese, recarsi in chiesa è una prova di eroismo. Tutte le funzioni religiose sono presidiate da forze di sicurezza, circa 3 mila poliziotti sono dislocati in maniera permanente a guardia di 237 luoghi cristiani. Mentre i soldati statunitensi rientravano in patria con qualche settimana di anticipo per celebrare il Natale con le loro famiglie, a Baghdad, Kirkuk, Mosul – ci riferisce mons. Casmoussa – i vescovi sono stati costretti ad annullare la messa di mezzanotte per motivi di sicurezza. Quelle del mattino si sono svolte tra infiniti controlli, blindati schierati, strade svuotate da ogni veicolo per timore di auto-bombe.
«Quest’anno, abbiamo dovuto chiedere alle comunità cristiane di non festeggiare pubblicamente il Natale. Troppo pericoloso, anche per la coincidenza con la festa sciita del Muharram, che comprende un periodo di lutto per la morte della sacra figura dell’imam Hussein», spiega da Baghdad Ra’ad Emmanuel responsabile della Fondazione per i cristiani iracheni, ufficio governativo con il compito di tutelare le minoranze cristiane. «I terroristi avrebbero potuto attaccarci, col pretesto che non avevamo rispetto per il loro imam, e così è stato meglio mantenere un basso profilo».
Emmanuel non nasconde tutta la sua amarezza. «Gli americani non hanno fatto molto per migliorare la condizione di noi cristiani; la loro presenza ci ha danneggiato, ci ha appiccicato addosso l’etichetta di filo-crociati, pur essendo noi assiri caldei iracheni, una delle comunità più antiche del Paese, presenti ben prima dell’islam. Ora ci troviamo in una situazione peggiore di quella in cui vivevamo sotto Saddam Hussein». Molti cristiani sono emigrati verso il Nord, nel Kurdistan e nelle zone limitrofe, dove più alta è la concentrazione dei loro correligionari e dove gli episodi di violenza sono diminuiti dal 2007 in poi. Secondo quanto dichiarato recentemente dal ministro degli Affari religiosi di Irbit, capitale del Kurdistan, ci sono circa 140 villaggi cristiani nella provincia e 70 chiese sono stata ristrutturate, anche con fondi del governo curdo. I curdi iracheni, che governano uno Stato dentro lo Stato, sembrano desiderosi di mostrarsi all’Occidente come protettori dei cristiani, ma ciò potrebbe trasformarsi in una politica di espansionismo verso zone tradizionalmente arabe o contese, come la pianura di Ninive, dove si è a lungo parlato di creare un’enclave cristiana, data la forte presenza di questa minoranza. Un’idea che caldeggiavano alcuni leader politici cristiani filo-curdi, ma che è sempre stata criticata da molti esponenti religiosi cristiani locali e dal Vaticano. «Ufficialmente non è un argomento di discussione, o perlomeno noi non veniamo consultati», afferma mons. Casmoussa. «Tuttavia, noi cristiani siamo cittadini iracheni a pieno titolo e dobbiamo godere degli stessi diritti su tutto il territorio nazionale. Non è ammissibile immaginare tutele per i cristiani solo in alcune regioni ”protette” del Paese e non in altre».
Anche perché la Chiesa irachena non ha un’unica identità etnica e linguistica: ci sono turkmeni, assiri, arabi e curdi. Gode di legami culturali con ognuna delle diverse componenti irachene, senza esclusive.
Resta il fatto che nella guerra civile seguita all’invasione statunitense, 900 cristiani sono stati uccisi, 6 mila feriti e 57 chiese assaltate e distrutte. Prima dell’invasione statunitense del 2003 in Iraq vivevano un milione e mezzo di cristiani; ormai – secondo l’organizzazione internazionale Human Rights Watch – ne sono rimasti 500-600 mila.