Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

I cristiani d’Egitto chiedono giustizia

Camille Eid
26 gennaio 2011
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A Baghdad stavano ancora piangendo i loro caduti del 31 ottobre quando ha tuonato la micidiale esplosione ad Alessandria d’Egitto, mettendo prepotentemente a nudo davanti al mondo la fragile situazione dei cristiani in Medio Oriente. La sola differenza è che mentre in Iraq lo Stato è esso stesso vittima del terrorismo e non gli si può chiedere conto delle persecuzioni che colpiscono i membri delle diverse minoranze, in Egitto la violenza non avrebbe raggiunto simili proporzioni se lo Stato non avesse rinunciato al suo ruolo di garante dell’uguaglianza tra i propri cittadini.

Una prima discriminazione è la legge relativa alla costruzione di edifici religiosi cristiani. La legislazione in vigore in Egitto (che risale al 1934 e si ispira a un editto ottomano del 1856!) fissa dieci condizioni che frappongono ostacoli quasi invalicabili per la costruzione di nuove chiese. Ne citiamo alcune: una chiesa non deve essere costrui-ta su un terreno agricolo; non deve essere vicina a una moschea; se viene costruita in una zona abitata anche da musulmani, occorre avere prima il loro permesso; ci deve essere in quella zona un numero sufficiente di cristiani; non devono esserci altre chiese vicine; occorre il permesso della polizia se si è vicino a ponti sul Nilo o a suoi canali o alla ferrovia. Una volta rispettate queste condizioni, parte il lungo iter burocratico (possono passare anche più di dieci anni) che culmina con la firma del presidente della Repubblica. Nel frattempo, ovviamente, potrebbero sorgere moschee vicine al terreno identificato per costruire la chiesa, per cui si cade in un altro divieto.

Nel dicembre 2005, il presidente Hosni Mubarak ha trasferito ai governatori locali la prerogativa di autorizzare il restauro dei luoghi di culto cristiani. Ma questo parziale gesto di riparazione non è bastato a cancellare l’amara convinzione dei copti di essere considerati dallo Stato cittadini di seconda categoria. Essi, infatti, sono praticamente estromessi dalla vita politica (pochissimi deputati eletti alla Camera); sono impediti, in virtù di una circolare del 1940, di insegnare l’arabo perché è la lingua del Corano; è difficile per loro accedere alle alte cariche dello Stato e dell’esercito. Anzi, negli ultimi anni non sono mancate richieste di tornare a imporre loro la jizya, il testatico richiesto ai non musulmani in cambio della protezione.

Coloro che hanno pensato di fare gli auguri ai copti alessandrini dispensando sangue e lacrime ignorano che il martirio fa parte della storia cristiana d’Egitto. Lo stesso calendario copto, chiamato Calendario dei martiri, fa partire la sua era dal 284, a ricordo di coloro che morirono per la fede sotto la grande persecuzione di Diocleziano. La novità è che i copti non intendono più morire in silenzio. Il patriarca Shenuda III ha dichiarato che la sola cosa che può acquietare i copti è un giudizio equo nei tribunali egiziani rispetto a tutti gli assassini di cristiani negli ultimi trent’anni, mai giudicati e ancor meno puniti: 1.800 assassinii e circa 200 atti di vandalismo perpetrati contro i loro beni.

«La sopravvivenza cristiana in Egitto è un enigma – scriveva qualche anno fa Péroncel-Hugoz -. L’ostinazione di questa popolazione a rimanere copta, quando il passaggio all’islam semplifica così tanto la vita nell’Oriente arabo, non può analizzarsi se non alla luce della fedeltà alle origini di cui certi popoli possiedono il segreto. I copti d’Egitto devono la loro sopravvivenza solo a sé stessi. Ciò è ammirevole, ma non  spiegabile».

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