Recentemente sono stato commensale, a cena, di alcuni ambasciatori occidentali e di un alto funzionario dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, l’Olp, con incarichi nel campo degli eventuali, attesissimi negoziati di pace con lo Stato di Israele. Al termine della cena mi sono trovato un uomo ben più felice di prima, confortato, consolato, ricaricato di speranza. La mia fiducia nella possibilità della pace è stata enormemente rafforzata dal funzionario palestinese, che si è rivelato pieno di entusiasmo e di buona volontà, e molto comprensivo nei riguardi dell’altra nazione che, in assenza di pace, si è trovata a tenere lui, i suoi famigliari e i loro vicini sotto un regime di occupazione militare da oltre quattro decenni, forse da prima della sua nascita. Di Israele egli parlava pacatamente, da profondo conoscitore dello Stato limitrofo, della sua storia, della sua politica, delle sensibilità della sua gente. Egli si rifiutava di cedere al pessimismo di altri davanti ai veri e presunti ostacoli, sostenendo invece le ragioni dell’ottimismo.
Ne sono rimasto edificato, anzi commosso. Se dopo una vita sotto occupazione militare, i sentimenti che prevalgono nel cuore dell’esponente di spicco degli occupati sono di comprensione, di buona volontà, di voglia di pace per gli occupanti, non meno che per il proprio popolo, vuol dire che la pace è più che possibile, è un imperativo al quale nessuno si debba sottrarre. Lo sapevo già, come lo sanno tutti, che lo stesso atteggiamento è condiviso da un’intera generazione di esponenti dell’Olp, cresciuti sotto l’occupazione e spesso con alle spalle anche anni trascorsi nelle carceri militari, dove si sono preoccupati d’imparare l’ebraico e di cercare di conoscere e capire i loro carcerieri, gettando così i ponti per i dialoghi più ufficiali che ne sarebbero seguiti. Incontrare e sentire di persona un appartenente a questa «generazione della speranza» me ne ha dato preziosa conferma.
Per la pace non basta però il forte desiderio ed impegno di questi esponenti dell’Olp. Si richiede che vi corrispondano passione ed impegno da parte di altri interessati alle sorti del rapporto israeliano-palestinese e quindi alle sorti della Terra Santa, patria di entrambe le nazioni.
In particolare si richiede l’impegno fattivo degli amici di tutti e due i popoli, in Europa, nelle Americhe e altrove. Si richiede che all’interminabile «processo di pace» divenuto sembra un’intera industria autoreferenziale, si sostituisca uno sforzo ordinato e mirato di ultimare i trattati di pace, di riesumarne le tante bozze dai cassetti, di limarle appropriatamente, di farle firmare, e poi di accompagnarne la messa in pratica, che non potrà che essere prudentemente graduale, pur con gli obiettivi ben definiti. Mai come ora le circostanze sono state più propizie. Gli inutili ritardi invece si preannunciano estremamente pericolosi. In Israele, il ricordo degli anni di intenso terrorismo di matrice islamica nella prima metà del decennio continua ad alimentare sfiducia e timori. Tra i palestinesi, più si rinvia la sospirata libertà più si rinforzano le minacce dell’estremismo islamista indebolendo la guida dell’Olp «nazionale» e laico rappresentato dal mio interlocutore, che nella Striscia di Gaza non ha retto, e che non si può garantire possa continuare a prevalere nella Cisgiordania. Gli estremisti dicono che il «pacifismo» dell’Olp è fallito: priviamoli di questo argomento.
Certo è che la pace israelo-palestinese non si potrà avere da sola, non stabilmente e compiutamente, e che si richiede sempre un più vasto contesto regionale con molteplici appoggi internazionali. Precisamente a tale impresa si è dato inizio nella Conferenza di pace di Madrid del 1991. È tempo di darle seguito.