Il sole impietoso dell’estate siriana non impedisce, ogni giorno, ad una insolita processione di musulmani, cattolici, ortodossi di inerpicarsi verso il monastero di Sednaya, un convento cristiano-bizantino distrutto e ricostruito innumerevoli volte, appollaiato su una collina brulla a una manciata di chilometri dal confine con il Libano e la valle della Bekaa. I visitatori arrivano nel chiostro ombreggiato, si levano le scarpe come sulla soglia di una moschea, e aspettano in silenzio di essere ammessi, sotto l’occhio vigile di monache ortodosse, nel minuscolo santuario buio. In una stanza poco più grande di uno sgabuzzino è conservata l’icona della Madonna più venerata nel Paese. Si tratta di un’immagine attribuita a san Luca, portata qui nei primi secoli dell’era cristiana da un monaco di Gerusalemme e capace – dice la tradizione popolare – di compiere miracoli, prodigi e soprattutto di dare figli a chi non riesce a concepirli.
Poco importa che l’icona sia ora coperta da una tavola di legno che la protegge dai baci e dalle carezze dei pellegrini. Le giovani coppie sterili, le tante ragazze avvolte nei loro hijab non hanno bisogno di vederla. Si affidano a Maria, accendendo un cero che rischiara l’oscurità. Molte, raccontano le suore, torneranno a fare benedire il loro figlio: un omaggio alla Madonna, un gesto simbolico per i musulmani, non una conversione.
A guardare i pellegrini in paziente attesa, sembra impossibile che proprio di fronte al convento, su una collina distante un centinaio di metri in linea d’aria, sia scoppiata ai primi di luglio una delle rivolte più sanguinose e gravi avvenute in Siria negli ultimi tempi. Nel carcere di massima sicurezza di Sednaya, il più grande del Paese con i suoi 5 mila detenuti, i Fratelli musulmani, già protagonisti della fallita insurrezione contro il regime di Assad agli inizi degli anni Ottanta, hanno ispirato e guidato una ribellione violenta che si è allargata a macchia d’olio tra i reclusi. Le poche notizie trapelate sulla stampa internazionale e rimbalzate sui siti degli organismi per i diritti umani ipotizzavano disordini minori dovuti al sovraffollamento carcerario; qualcuno ha parlato di provocazioni da parte della polizia, cosicché probabilmente non si sono colti il significato di sfida politica dell’evento e le sue dimensioni reali. La gente del posto sussurra che sia stato un inferno: truppe anti-sommossa, cingolati, sparatorie; alle fine almeno 27 carcerati uccisi, secondo fonti semiufficiose. Molti di più, riferiscono fonti diplomatiche che preferiscono mantenere l’anonimato.
Poi a Sednaya è ritornata la calma. Come se nulla fosse mai accaduto. Il sole dell’estate picchia ancora e nel convento, musulmani e cristiani pregano con la stessa intensità; solo qualche camionetta della polizia, di là di una stretta vallata e di un wadi inaridito, segnala l’accesso a una stradina sterrata che porta al penitenziario più inquieto della nazione.
Questa è la Siria di oggi: uno Stato in bilico. Un regime politicamente ancora ai primi timidi passi di apertura; una società che rappresenta da secoli un’esperienza di convivenza religiosa; ma anche un Paese in cui torna a serpeggiare la minaccia fondamentalista islamica, più pericolosa per i contraccolpi della guerra irachena. Negli ultimi anni si sono infatti riversati nel Paese quasi due milioni di profughi dall’Iraq, una massa destabilizzante per una società di 18 milioni di abitanti (oltre un milione i cristiani), pur abituata ad accogliere gli stranieri: armeni, palestinesi, iracheni della prima guerra del Golfo.
«La guerra dell’Iraq ci è arrivata in casa», sintetizza padre Antonio Mulseh, parroco melchita della chiesa di San Giovanni Damasceno, nella capitale. La comunità melchita è, dopo la greco-ortodossa, la confessione cristiana più numerosa del Paese. La chiesa di padre Antonio si trova nel cuore storico della Damasco cristiana; il chilometro quadrato – dicono i locali scherzando – più liberal di tutta la Siria. Qui gli immigrati iracheni insediati sono ancora pochi; tra le ragazze cristiane in jeans e maglietta, si nota giusto qualche donna ricoperta di veli neri, qualche mendicante che cerca di chiedere l’elemosina ai turisti occidentali, sfuggendo all’occhiuta polizia siriana. Ma in alcuni quartieri periferici della capitale, così come anche ad Aleppo, gli iracheni sono diventati maggioranza: hanno aperto i loro negozi, avviato le loro attività in diretta concorrenza con i siriani. Gli immigrati più poveri, generalmente pagati in nero, fanno concorrenza ai ceti umili siriani nell’occupare i posti di lavoro meno ambiti. Nelle strade di Damasco, gli operai, gli spazzini, i manovali parlano ora un arabo con accento iracheno, così come i camerieri e i cuochi nelle cucine dei ristoranti. «Con i profughi sono arrivati i furti, la prostituzione, la criminalità», si lamenta padre Antonio; e, ancora peggio, «un’atmosfera di rabbia, di vendetta, di odio». Di guerra, appunto. «Si è cercato di integrarli – prosegue il sacerdote melchita -: tutti i bambini iracheni sono stati inseriti nelle scuole siriane ed anche le cure mediche sono garantite gratuitamente ai rifugiati. Si tratta di uno sforzo immane, ma servono più soldi, più organizzazione, più presenza internazionale. La Siria è stata lasciata sola a pagare i danni causati da altri».
Da parte dei profughi iracheni vi è poi una scarsa disponibilità a integrarsi nella società siriana. Tra i rifugiati ci sono anche 200 mila cristiani, ma anche questi fratelli di fede sono difficilmente assimilabili nei ritmi della tolleranza religiosa siriana: «Per le nostre chiese – confessa padre Antonio – ci sono molti problemi…».
Ancora più delicato si fa il di scorso per i profughi musulmani: tra le moltitudini che, al ritmo talvolta di 40-50 mila al mese, hanno varcato dal 2003 in poi la frontiera aperta con la Siria, vi possono essere schegge di Al Qaida, terroristi pronti a saldare la loro ideologia di violenza con il crescente malcontento sociale e con i progetti rivoluzionari dei Fratelli Musulmani, ancora presenti sul territorio, nonostante la repressione degli anni Ottanta.
La rivolta del carcere di Sednaya costituisce un presagio inquietante. La paura del fondamentalismo si percepisce nei discorsi di autorità siriane e di esponenti delle Chiese cristiane: «La Siria – afferma padre Antonio – ha finora costituito un miracolo di tolleranza religiosa. Ad ogni comunità è riconosciuto un proprio diritto di famiglia; a noi melchiti, ad esempio, è stato garantito due anni fa quello del Codice di Diritto canonico. Ma il futuro è incerto: siamo in Medio Oriente e i pericoli vengono dall’esterno». Quel «finora» di padre Antonio lascia trasparire tanti timori, gli stessi del vescovo armeno Armash, che ci riceve nella chiesa di San Sergio a Damasco, punto di riferimento per 8 mila fedeli della capitale, ma visitata anche da musulmani.
«In Siria, parlare di dialogo con l’islam è riduttivo: è la vita stessa che è comune. Dopo il genocidio armeno in Turchia, avvenuto nei primi decenni del Novecento, qui abbiamo trovato rifugio, e la possibilità di una nuova esistenza. Preghiamo perché ciò possa essere garantito anche in futuro». Il gran muftì della Siria, la massima autorità religiosa statale del Paese, Ahmad Badr Al Din Hassun, invoca la lotta al fondamentalismo e in qualche modo giustifica il pugno di ferro usato dal regime negli anni Ottanta per stroncare la rivolta dei Fratelli musulmani: «La Siria fu accusata di non rispettare i diritti umani. Quella rivolta – accusa il gran muftì – fu finanziata contro di noi dall’Arabia Saudita e molti di quei terroristi finirono poi in Pakistan, in Afghanistan per poi ricomparire nelle file di Al Qaida».
«Oggi – osserva – esiste ancora chi vuole usare il fondamentalismo per colpire la nostra convivenza religiosa». Tra i suoi ricordi più belli, il gran muftì annovera la preghiera, nella grotta della Natività a Betlemme, 48 anni fa, insieme a una suora norvegese: «Pregammo uno accanto all’altra e quando ci ripenso, ancora mi emoziono».
Anche il ministro del Turismo di Damasco, Sadallah Agha al Kalaa, sposa la tesi che il pericolo del fondamentalismo venga da fuori. «In Siria le chiese cristiane sono considerate un posto sacro dove pregare. Poi – ironizza – ecco che arriva qualche filosofo che parla di scontro di civiltà. Ma la verità è che il fondamentalismo viene dall’esterno e non dall’interno della nostra nazione».
Quanto la carta della convivenza religiosa sia importante anche nella strategia di cauta apertura all’Occidente lo dimostra l’appoggio governativo al fitto calendario di celebrazioni avviato quest’anno per l’Anno Paolino, nel secondo millenario della nascita dell’Apostolo delle genti. Tra le tante iniziative, un pellegrinaggio in questo mese di ottobre con oltre 130 vescovi italiani. La via di Damasco, dove Saulo fu illuminato dal Dio dei cristiani, è un unico grande cantiere dove ruspe e gru lavorano incessantemente per trasformare le antiche case damascene in hotel e boutique e ridare alla capitale il suo splendore da mille e una notte. I pellegrini cristiani ritornano. E così può capitare di vedere gruppi di cattolici occidentali recitare il Padre Nostro e farsi il segno della croce davanti al mausoleo di san Giovanni Battista, il profeta Yahya per i musulmani, nella grande moschea omayyade di Damasco. Senza che nessuno si scandalizzi o protesti. Almeno finora.