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Ibrahim, quello della porta aperta

Claudia Henzler
15 gennaio 2007
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Ibrahim, quello della porta aperta
Ibrahim con la moglie Naima. (foto: C. Henzler)

Questa storia ci porta sul Monte degli Ulivi, a Gerusalemme Est. Non tanto perché la zona sia essenzialmente palestinese (e già ci sarebbe molto da dire a riguardo) ma per via di uno speciale piccolo uomo di nome Ibrahim Abu el Hawa.

La prima volta che misi piede in Terra Santa, nel novembre 2005, incontrai quest’uomo per puro caso davanti al Knights Palace Hotel di Gerusalemme. Avevo già sentito parlare di lui prima di andare in Israele, ma lui non mi conosceva affatto. Così, senza minimamente sapere chi fossi, mi tese la mano: «Ciao. Il mio nome è Ibrahim Abu el Hawa e ti do il benvenuto in Terra Santa. Vieni a trovarmi a casa mia, sul Monte degli Ulivi. Sarai sempre benvenuta».

Quello che avevo sentito dire di lui pareva vero. Questo musulmano di 64 anni accoglie persone di tutto il mondo, qualunque sia il loro retroterra religioso. Poco tempo dopo il suo invito sono andata a cercarlo sul Monte degli Ulivi. Lassù quelli che dovevano essere pochi minuti sono diventati ore, giorni e mesi. Ho finito per rimanere a vivere nella sua casa fino a quando sono ripartita, nel luglio 2006.

La prima volta che andai da lui per parlargli, mi chiedevo se tutto quel che diceva fosse vero e se davvero facesse quanto diceva. Molti peacemaker parlano tanto ma non sempre fanno come dicono. Via via che le settimane passavano la mia immagine di quel piccolo uomo palestinese diventava via via più chiara.

Ma andiamo con ordine.

Ibrahim viene da un numeroso clan famigliare, quello degli Abu el Hawa – composto da oltre duemila persone – che abita sul Monte degli Ulivi da più di 1.400 anni. Ha lavorato sodo come ingegnere per una compagnia petrolifera fino a quando è andato in pensione quattro anni fa. Essendo il primogenito di suo padre – che era già stato menzionato dalla rivista National Geographic, per la sua straordinaria vita e personalità, nell’aprile 1959 — egli porta avanti la tradizione di famiglia di dare ospitalità a chi visita la sua dimora. Ma ancor più dei suoi antenati, Ibrahim ha aperto le porte non solo agli amici musulmani e alla sua grande famiglia (ha otto figli e il venticinquesimo nipote è venuto al mondo lo scorso settembre) ma anche a gente di tutto il mondo.

Durante il mio soggiorno nella sua casa ho osservato passare tantissima gente: vip, scrittori, fotografi e cineasti. Ho visto musulmani, ebrei, cristiani, tipi vestiti da hippy e conservatori, peacemaker impegnati sul versante umanitario e su quello politico, laici e religiosi, ricchi e poveri di molti Paesi differenti. Tutta gente che veniva da Russia, Stati Uniti, Europa, Sud America, Australia, Africa… Penso che non mancasse nessun continente.

Ma in che modo tutti costoro erano venuti a conoscenza di Ibrahim e della sua casa aperta? Nella maggior parte dei casi grazie al passaparola o dietro invito personale.

«Come sei arrivato qui e come hai conosciuto Ibrahim?», era la domanda che più comunemente rivolgevo a quanti incontravo in quella casa. Più o meno tutti rispondevano come Dennis, dagli Stati Uniti: «Beh, sai! Me ne stavo per strada quando Ibrahim – e non sapevo il suo nome fino a quel momento – mi si avvicina per chiedermi: “Posso esserti utile?”. All’inizio ero sorpreso ma poi ho risposto: “Sì, sto cercando una tessera telefonica. Sa dove potrei comprarne una?”. E Ibrahim: “Vieni con me. Ti darò un mio cellulare. Me lo restituirai quando riparti dalla Terra Santa”. E così ora sono qui a bermi il tè che mi ha preparato mentre lui cerca il telefonino. Quest’uomo è sorprendente!».

Un’altra incredibile storia è quella di un ebreo ammalatosi mentre era in viaggio in Terra Santa. Ibrahim lo ha portato all’ospedale e si è preso cura di lui per diversi giorni. Alla fine l’uomo è morto. E Ibrahim ha riportato le spoglie negli Stati Uniti, ai suoi familiari, senza prima sapere se sarebbe stato rimborsato per le spese sostenute per le cure, il trasferimento della bara e così via. Nel breve periodo trascorso in Terra Santa prima di morire, quell’ebreo per Ibrahim era diventato non uno straniero, ma un amico. Ibrahim aveva fatto tutto per lui senza attendersi nulla in cambio.

Sono convinta che questo suo tenere il cuore aperto e compiere molti gesti di gratuità crei una specie di effetto eco. È così che, da alcuni anni, riceve continuamente inviti da varie parti del mondo per parlare di pace e di costruzione della pace nel suo Paese. Lui non possiede un passaporto, ma in qualche modo è sempre riuscito ad andare all’estero e a prendere la parola negli Stati Uniti, in Canada, in Gran Bretagna, Australia, Russia, India e molti altri Paesi.

Ovunque sia invitato, Ibrahim parla col cuore. Sia che si rivolga a una semplice persona incontrata per strada, oppure a un vip, o che parli a un milione e mezzo di ascoltatori (come nel 2006 in India), agisce e parla con la stessa semplicità – non prepara mai discorsi – e con un umorismo caratteristico.

Anche dopo essere finito molte volte sui giornali israeliani e del resto del mondo per la sua opera di pace lui continua ad essere l’uomo di sempre… La mattina presto lo senti già indaffarato ai fornelli della sua cucina. Poi urla per tutta la casa: «Buongiornoooo… la colazione è pronta!».

È quasi sempre il primo ad alzarsi la mattina e l’ultimo a coricarsi. Sembra che abbia dentro un motore che non si ferma mai. Ma Ibrahim non sarebbe Ibrahim senza sua moglie Naima. È lei che sostiene ogni sua azione. Vive appartata al pian terreno della casa (i piani superiori sono riservati agli ospiti d’ogni parte del mondo) e si occupa del cibo; aiuta a tenere le cose in ordine, invita i parenti e così via.

La storia di come Naima e Ibrahim si sono conosciuti ha anch’essa dell’incredibile.

Quando Ibrahim aveva solo sette anni la sua famiglia adottò Naima (che ne aveva quattro) e le sue due sorelle affette da handicap (sordomute e cieche). A quel punto era già deciso che Ibrahim avrebbe sposato Naima e si sarebbe preso cura delle sue due sorelle. Fino ad oggi vivono ancora tutti insieme in una «casa aperta» al pian terreno. Ai miei occhi tutto ciò testimonia ancora una volta il gran cuore di Ibrahim. Chi mai, oggigiorno, accetterebbe un «pacchetto matrimoniale» del genere?

Nonostante le sue molteplici attività e impegni, Ibrahim è molto noto tra i peacemaker di Gerusalemme e della Terra Santa ma anche all’estero. È membro del gruppo dei Jerusalem Peacemakers e della Abrahamic Reunion, organismi che si concentrano sulla costruzione della pace tra persone dai differenti retroterra e religioni.

Nei mesi che ho trascorso sul Monte degli Ulivi nella sua «casa aperta» ho avuto modo di osservare da vicino la sua vita. Come vive la pace?

Anzitutto mette a disposizione dei suoi ospiti varie stanze. Alcune sono dormitori, altre hanno uno o due letti. Poi c’è una grande cucina, un soggiorno e una saletta computer. Ci sono un telefono, la lavatrice, una cassettiera piena di indumenti e un frigorifero a cui è attaccato un avviso: «Servitevi pure. Quello che c’è è vostro». Tutto è a disposizione gratuitamente, la casa è sempre aperta e Ibrahim dà il benvenuto a chiunque venga. Non parla espressamente di pace, ma non cessa di invitare gente a casa. Quel che mi ha colpito, ogni volta che anch’io ero presente, è il suo non fare differenza tra ricco e povero, religioso e ateo, cristiano, ebreo o musulmano… Tutti si sentono accolti.

Talvolta Ibrahim promuove incontri a gruppi per aiutare la gente a cercare di capirsi gli uni gli altri. Ricordo un incontro ben organizzato tra palestinesi ed ebrei non ancora in età di fare il militare. Partecipava una cinquantina di persone ed entrambe le parti, quel giorno, si parlavano per la prima volta, rivolgendosi a qualcuno che apparteneva «all’altra religione» e che s’erano abituati a considerare come il nemico con cui sarebbe stato difficile comunicare. Attraverso l’invito di Ibrahim la prima barriera era caduta. Cominciavano a parlarsi e ad immaginare anche futuri incontri.

Un’altra attività è l’aiuto che Ibrahim offre ad alcuni dei molti beduini che vivono nei dintorni di Gerusalemme. Raccoglie vestiti e altro materiale che poi consegna loro come forma di sostegno.

I progetti di pace e la visione di Ibrahim sono eloquenti, proprio perché lui abita sul Monte degli Ulivi, una zona popolata quasi esclusivamente da musulmani. Con la sua politica della porta aperta egli non solo mostra agli altri il cuore caldo dei palestinesi, ma aiuta anche i musulmani che vivono intorno a lui a guardare con occhi nuovi agli estranei che arrivano da retroterra religiosi e culturali differenti. C’è normalmente un certo scetticismo da entrambe le parti, ma se le persone continuano a venire alla casa aperta di Ibrahim possono anche offrire il loro contributo nella scelta della pace e nell’aprirsi all’«altra parte», ai musulmani. Così la reciproca comprensione, la riconciliazione e la speranza di pace possono crescere, anche in aree di conflitto.

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