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Nella Sapienza che vive presso Dio tutto fu creato

Frédéric Manns
7 aprile 2006
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Nella Sapienza che vive presso Dio tutto fu creato
Dio crea l'uomo. Andrea Pisano, formella per il duomo di Firenze. Ora conservata nel museo dell'Opera del Duomo.

Il Prologo del Vangelo di Giovanni va dritto al centro della novità del cristianesimo, annuncio di un Dio che parla e vuole abitare tra gli uomini.


«No, no, bambina mia, e Gesù non ci ha dato neanche delle parole morte/ Che noi dobbiamo chiudere in piccole scatole (o in grandi.)/ E che dobbiamo conservare in olio rancido/ Come le mummie d’Egitto./ Gesù Cristo, bambina, non ci ha dato delle conserve di parole/ Da conservare/ Ma ci ha dato delle parole vive/ Da nutrire./ (…) Le parole di vita/ le parole vive non si possono conservare che vive/ Nutrite vive/ Nutrite, portate, scaldate, calde in un cuore vivo./  (Charles Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù in I misteri, Jaca Book 2001, pp. 210-211).

Giovanni inizia il suo Vangelo come la Genesi: «In principio». Il suo scopo è di evocare la nuova creazione operata dalla risurrezione di Cristo. La liturgia giudaica aveva proposto una duplice lettura del racconto della creazione: «In principio – di tempo o di spazio – Dio ha creato». Oppure: «Nella sapienza, il principio che vive presso Dio, tutto fu creato». Già i filosofi presocratici  avevano dato al termine greco archê il senso di «principi e cause che sono all’origine del cosmo». La Vulgata ha conservato l’ambivalenza del senso di Bereshit traducendo In principio.

I testi sapienziali rispondono a Genesi 1,1. In Proverbi 8,22 la Sapienza dice: «YHWH mi ha creata principio della sua via, prima delle sue opere. Fin dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, prima della terra». La Sapienza preesistente fu il principio della creazione. Filone di Alessandria conferma questa esegesi, perché il tempo non esisteva prima del mondo, ma è nato con lui o dopo di lui. Si deve dunque tradurre Bereshit «secondo il numero, secondo l’ordine». Ora, il Logos primogenito è chiamato il Principio, il Nome di Dio, il Verbo, l’uomo ad immagine. Filone si congiunge così all’esegesi giudaica tradizionale.

Definire Cristo come Verbo e Parola è situare la sua opera nella corrente biblica: Dio crea con la sua Parola (Gen 1; Es 40,26) o con la sua Sapienza (Sap 7,22). Questa Sapienza è venuta ad abitare con gli uomini. Lo afferma Ben Sirach 24,1-22. Nominare Cristo Logos è situarlo anche nel pensiero ellenistico per il quale il Logos è il principio che mantiene la coesione del mondo. Cristo viene a dare compimento alle attese dei giudei e dei pagani. È ciò che il Vangelo si sforza di mostrare ponendo sotto la croce di Cristo quattro soldati pagani e quattro donne ebree. Quattro è il simbolo dei punti cardinali. La ri-creazione apportata dalla croce di Cristo vale per gli uomini e per le donne, per i giudei e per i pagani. Giovanni colloca il Logos al principio e l’associa all’opera divina, innanzitutto alla creazione: «Egli era in principio con Dio. Tutto fu per mezzo di lui e senza di lui nulla fu». L’Apocalisse di Giovanni (3,14) definisce Cristo «principio della creazione di Dio». La liturgia cristiana, nell’inno ai Colossesi, celebra Cristo come principio della creazione e della ri-creazione. «Primogenito di ogni creatura. In lui tutte le cose furono create. Tutto è stato creato per mezzo di lui e per lui. Egli è prima di tutte le cose e tutto sussiste in lui. Egli è il capo del corpo, il principio, il primogenito dai morti. Bisognava che egli ottenesse il primato in tutto». È la stessa logica quella orchestrata in tutti questi testi.

«Innalzò la sua tenda in mezzo a noi»: Giovanni rimanda al testo di Ben Sirach 24,7-8 che descrive la Sapienza che pianta la sua tenda in Israele. Il greco skènè (tenda), che fa allitterazione con la parola ebraica Shekinah, la presenza di Dio in mezzo al suo popolo, è stata scelta di proposito. Gesù è il nuovo Tempio da cui si irradia per i credenti la Gloria di Dio.

«A quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio». La filiazione divina dei credenti è enunciata chiaramente: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre perché fossimo chiamati figli di Dio. E lo siamo», scrive Giovanni nella sua prima Lettera (3,1).

San Giovanni è il solo a far precedere il suo Vangelo con un Prologo. Matteo e Luca l’avevano aperto con il Vangelo dell’infanzia. Curiosamente, numerosi temi di Luca 1-2 sono orchestrati nel Prologo di Giovanni, nello stesso ordine: lo stesso dittico a contrasto tra Giovanni Battista, il precursore, e il Cristo trascendente apre i due Vangeli. Lo stesso riferimento alla grazia e alla gloria (Lc 2,32 e Gv 1,14) è messo in opposizione alla legge (Lc 2,22-24 e Gv 1,17). I due Vangeli escludono l’uomo dalla generazione di Gesù, che è solo di Dio, con due termini analoghi (Luca 1,34: non conosco uomo; Giovanni 1,13: lui, generato non per volontà di uomo).

Nei due testi, la venuta di Gesù provoca la stessa reazione: Gesù viene nella sua casa e «i suoi non l’hanno accolto» (Lc 2,7 e Gv 1,11). In ambedue i Vangeli, l’affermazione dell’origine divina (Lc 1,32 e Gv 1,1) precede la prospettiva della discendenza umana (davidica in Lc 1,32b): quest’ordine insinua la preesistenza di Gesù: implicitamente in Luca, esplicitamente in Giovanni. Gesù si manifesta come Dio sotto il segno della Shekinah in Lc 1,35 e in Gv 1,14. In Luca, l’ombra della nube divina testimonia che ciò che è generato in Maria è il Santo, il Figlio di Dio. Nel Prologo di Giovanni, Gesù ha posto la sua tenda tra gli uomini. La figura dell’arca dell’alleanza, splendente di Dio all’ombra della nube, è soggiacente a queste espressioni. La venuta di Cristo porta a compimento le promesse fatte a Israele.

Sia in Luca sia in Giovanni, Giovanni Battista precede Gesù come testimone della luce (Gv 1,7-8 e Lc 1,76-79). Il Cristo, Figlio di Dio, si rivela con la Grazia (Lc 1,28-30; 2,40.52; Gv 1,14-16.17) e la Gloria (Lc 2,9.32; cfr 1,35 e Gv 1,14), si è manifestato nella sua stessa umanità (Lc 2,32 e Gv 1,14). La Grazia caratterizza l’alleanza di Dio con il suo popolo.

In breve, il Prologo di Giovanni si presenta come una sintesi teologica dei concetti di Luca 1-2 sul rapporto di Giovanni il precursore con Gesù il Signore che è luce (1,78-79; 2,32) e gloria (2,32). L’interpretazione teologica di Giovanni riprende e riassume i fondamenti storici di Luca. Tra i Padri della Chiesa che hanno commentato il Prologo di Giovanni, alcuni ne radicalizzano l’interpretazione per concentrarla essenzialmente nella nascita del Verbo nell’anima del credente, mentre altri si sforzano di mettere in evidenza la divinità di Cristo.

Origene e Agostino si dilungano nel commento a In principio per coglierne i diversi sensi e per evidenziare che il senso principale ne è il Verbo.

Il Verbo è uguale al Padre da cui proviene. In altri termini, egli è Dio. In questo modo, è sottolineata la coeternità del Verbo col Padre. Sono poi messi in luce la presenza del Verbo nel Padre e la sua inabitazione nel credente. Agostino, nel libro X delle Confessioni (6,9), fa dire alle creature: «Noi non siamo Dio, ma è lui che ci ha fatto» (Non sumus Deus, sed ipse fecit nos). Agostino non arriva al concetto del nulla per ricavare la dipendenza nell’essere delle creature in rapporto con il loro Creatore, ma nel suo pensiero il concetto è implicito. Questo apparirà nel libro XI delle Confessioni (4,6), dove è scritto: «Se noi siamo, è perché siamo stati fatti. Dunque noi non eravamo, prima di essere, per poter farci da noi stessi».

Girolamo, nel suo trattato Liber heb. Quaestio in Genesim, cita la traduzione di Tertulliano e di Giasone e Papisco, i quali leggono bara Elohim (Dio creò) nel senso di bera delohim (il Figlio di Dio). Ne risulta che è il Figlio di Dio che ha creato il cielo e la terra. Ilario, nel suo trattato sul Salmo 2,2, riprende questa idea e afferma che bereshit (in principio) può avere tre sensi: in principio, in capite et in Filio. Ireneo di Lione trasmette una tradizione analoga (Dimostrazione 43): «Bisogna credere che un Figlio esisteva in Dio e che egli non solo è prima di essere apparso nel mondo, ma ancora prima che il mondo fosse. Colui che per primo ha profetizzato, Mosè, dice: Bereshit bara Elohim: Dio creò un figlio in principio». Il Targum Neofiti rimanda a queste speculazioni con la traduzione: «Il Figlio di Dio creò e portò a compimento». La lettera waw (e) è stata cancellata nel manoscritto. Genesi 1,1 aveva preso un sapore troppo cristiano. Ciò significa che l’esegesi giudaica e l’esegesi cristiana hanno dialogato per secoli prima di ignorarsi.

Il Prologo del Vangelo di Giovanni, come il portico di una cattedrale, va dritto all’essenziale: «Il Verbo si è fatto carne. Ha abitato tra noi». Non si poteva riassumere in modo più sintetico la novità del cristianesimo. Lungi da un ritorno alla mitologia greca, il cristianesimo annuncia il compimento della Sapienza biblica che vuole dimorare tra gli uomini. Il Dio della Bibbia è un Dio che parla e che vuole entrare in comunione con l’umanità fino ad incarnarsi.

(Frédéric Manns è professore di esegesi e di giudaismo presso lo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme)

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