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A Damasco gli ex jihadisti contro l’Isis

Giuseppe Caffulli
4 novembre 2025
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A Damasco gli ex jihadisti contro l’Isis
(immagine Canva)

Il governo transitorio siriano ha ereditato un Paese devastato e un mosaico di forze frammentate. In questo scenario, la lotta contro l’Isis è divenuta un terreno di convergenza con la Coalizione internazionale a guida statunitense. Non senza paradossi.


Nelle prime ore del 18 ottobre 2025, le forze della Coalizione globale contro l’Isis e reparti governativi siriani hanno condotto un’operazione congiunta ad al-Dumayr, a est di Damasco. Obiettivo: catturare Ahmad Abdullah al-Masoud al-Badri, uno dei massimi leader dell’organizzazione jihadista, latitante da anni nel deserto siriano. L’azione, iniziata alle due del mattino, è stata presentata come una nuova fase della cooperazione tra la Coalizione e il governo di Damasco – la quinta in pochi mesi – e segna un passaggio simbolico e politico di grande rilievo: la Siria post-Assad che combatte il gruppo che, in parte, ne ha determinato la genesi.

Uniti contro il sedicente Stato islamico

La Global Coalition to Defeat ISIS è un’alleanza internazionale istituita nel settembre 2014 su iniziativa degli Stati Uniti con l’obiettivo di coordinare gli sforzi militari, politici e umanitari per sradicare dalla Siria e dall’Iraq il gruppo terrorista auto-denominatosi Stato islamico. La coalizione oggi conta 87 membri, tra Stati e organizzazioni internazionali; ha sostenuto le Forze democratiche siriane (Sdf) nella lotta al «califfato» e ha condotto migliaia di raid aerei e operazioni speciali. Dopo la caduta del regime di Bashar al Assad, nel dicembre 2024, ha avviato un graduale coordinamento con il nuovo governo siriano, nella prospettiva di una sua possibile adesione formale.

A Damasco il governo transitorio, che include personalità provenienti dall’ex opposizione armata, ha ereditato un Paese devastato e un mosaico di forze frammentate. In questo scenario, la lotta contro l’Isis è divenuta un terreno di convergenza con la Coalizione internazionale, fino a poco tempo fa considerata un’invasione straniera. Ma dietro il pragmatismo militare si nasconde un paradosso che la Siria non può ignorare: un apparato statale nato dal caos generato dall’Isis oggi si propone come baluardo contro di esso.

In rotta col passato

Durante gli anni più duri della guerra (scoppiata nel 2011), il regime di Assad aveva sfruttato la minaccia jihadista per consolidare il proprio potere, presentandosi alla comunità internazionale come argine al terrorismo. La sua caduta ha svelato quanto quella retorica fosse parte integrante di una strategia di sopravvivenza. Il nuovo ordine politico, pur segnando una rottura con il passato, resta in parte figlio di quella logica: le sue strutture di sicurezza, la retorica nazionalista e la stessa configurazione del potere derivano da un sistema plasmato nel confronto, e nella coesistenza ostile, con l’Isis.

La collaborazione attuale tra Damasco e la Coalizione nasce da una serie di incontri tra i ministeri della Difesa e dell’Interno siriani, che vedono nell’adesione formale all’alleanza anti-Isis un modo per ottenere riconoscimento politico, supporto tecnico e apertura diplomatica. Dal canto suo, Washington intravede l’opportunità di ampliare la propria rete di sicurezza nella regione e di consolidare un fronte unitario contro la rinascita jihadista. Tuttavia, le trattative restano complesse: la Siria chiede l’alleggerimento delle sanzioni come condizione per la piena adesione, mentre gli Stati Uniti legano qualsiasi passo concreto alla riforma delle istituzioni militari e al riavvicinamento con le Forze democratiche siriane (Sdf), ancora presenti nel nord-est del Paese.

Un avversario più fluido

Sul terreno, l’Isis non è più l’esercito territoriale di un tempo, ma un reticolo agile di cellule mobili, attive tra il deserto di al-Sukhna e la valle dell’Eufrate. I suoi combattenti, stimati tra 2.500 e 3.000, operano in piccoli gruppi, sfruttando le fratture di un Paese ancora diviso e la fragilità di apparati statali in ricostruzione. Le operazioni congiunte recenti, come quella di agosto, in cui è stato ucciso un alto dirigente iracheno dell’organizzazione, mostrano risultati concreti, ma limitati. «La cooperazione ha dato frutti tangibili, ma resta circoscritta», ha dichiarato un funzionario siriano, riconoscendo che la sfida principale è ancora la mancanza di fiducia reciproca.

Il percorso verso l’integrazione di Damasco nella Coalizione incontra, a dire il vero, anche ostacoli strutturali. Il nuovo ministero della Difesa, ancora in fase di riorganizzazione, fatica a garantire il controllo sulle proprie truppe e a verificare l’affidabilità dei reclutamenti. Per questo, la maggior parte delle operazioni congiunte passa oggi attraverso il ministero dell’Interno, considerato più solido e più vicino ai canali di comunicazione con la Coalizione. Un’anomalia che riflette la natura ibrida dello Stato siriano post-bellico: né pienamente sovrano, né del tutto subordinato, sospeso tra necessità di sicurezza e ricerca di legittimità.

L’equilibrismo di Damasco

Il paradosso diventa così politico e morale. Il nuovo governo cerca di farsi riconoscere come partner affidabile nella lotta al terrorismo, ma deve ancora dimostrare di aver reciso i legami, diretti o indiretti, con gli apparati e le logiche che, in passato, hanno alimentato quel terrorismo. È un equilibrio delicato: da un lato la necessità di cooperare con potenze occidentali per la stabilizzazione del Paese; dall’altro, la diffidenza di una popolazione segnata da anni di violenza e propaganda antioccidentale. La Siria di oggi combatte l’Isis, ma porta ancora i segni di una genealogia politica nata dalla stessa frattura che il jihadismo aveva aperto.

L’esito di questa collaborazione dipenderà dalla capacità di entrambe le parti di trasformare la cooperazione tattica in un partenariato strategico. Se Damasco riuscirà a riformare le proprie istituzioni di sicurezza e ad avviare un processo di inclusione reale delle componenti locali, l’adesione formale alla Coalizione potrebbe diventare un punto di svolta: non solo nella guerra contro l’Isis, ma nella definizione di una nuova Siria post-conflitto, più credibile agli occhi del mondo. In caso contrario, il rischio è quello di un ritorno alla frammentazione. E con essa, alla possibilità che l’Isis torni a prosperare tra le macerie di un Paese che non ha mai smesso di essere il suo terreno ideale.

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