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Tra Russia e Siria nuova intesa, più cauta la Cina

Giuseppe Caffulli
16 ottobre 2025
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Tra Russia e Siria nuova intesa, più cauta la Cina
Ahmed al-Sharaa sul palcoscenico internazionale. Il presidente siriano ad interim parla davanti all'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 24 settembre 2025. (UN Photo/Manuel Elías)

Mosca e Ankara sembrano pronte a investire nel nuovo corso siriano, mentre la Cina resta cauta. A preoccupare Pechino è soprattutto la crescente presenza di miliziani uiguri tra le fila delle forze armate siriane.


Il Cremlino aveva indetto per il 15 ottobre 2025, un vertice arabo-russo volto a rilanciare il ruolo di Mosca in Medio Oriente. Poi l’attenzione internazionale si è concentrata sul Piano Trump per la tregua nella Striscia di Gaza; è arrivata la giornata del 13 ottobre, con la liberazione degli ostaggi israliani dalla Striscia di Gaza, il cessate il fuoco, la scarcerazione di migliaia di detenuti palestinesi, il viaggio lampo di Donald J. Trump a Gerusalemme e al vertice internazionale di Sharm el-Sheikh. Ragioni sufficienti per indurre Vladimir Putin a rinviare l’appuntamento a un futuro imprecisato.

D’altronde, pochi leader arabi avevano confermato la propria presenza al vertice moscovita. Tra questi il presidente ad interim siriano Ahmed al-Sharaa, che a Mosca ci è andato comunque. La Russia, che per anni ha sostenuto Bashar al-Assad, ora è disposta a stringere un patto strategico con il suo successore, leader di Hayat Tahrir al-Sham, gruppo jihadista legato ad al-Qaeda, così da non perdere la propria centralità nell’area.

L’accoglienza al Cremlino

Nel suo faccia a faccia del 15 ottobre al Cremlino con Putin – riferisce l’agenzia ufficiale Sana – il presidente siriano ha riconosciuto che «Siria e Russia condividono una relazione storica di lunga data, oltre a legami bilaterali e interessi reciproci in diversi settori, tra cui il settore energetico siriano, che si basa in larga misura sulle competenze russe». Ha quindi assicurato: «Rispettiamo tutti gli accordi passati e stiamo lavorando per ridefinire la natura di queste relazioni in modo da garantire l’indipendenza e la sovranità nazionale della Siria».

Vladimir Putin, dal canto suo, ha ricordato che i due Paesi e i loro popoli intrattengono rapporti amichevoli sin dal 1944, anno in cui si allacciarono le relazioni diplomatiche. Ha quindi proposto di ridare vigore alla Commissione intergovernativa che dal 1993 agevola il coordinamento tra Mosca e Damasco.

Benché le fonti ufficiali non ne parlino, è probabile che la delegazione siriana abbia presentato ai russi la richiesta di rispedire a Damasco l’ex presidente Bashar al-Assad – ora in esilio dorato a Mosca – così da poterlo mandare a processo.

Restare vicini anche senza Assad

La Siria post-Assad, dieci mesi dopo la caduta del raìs è una realtà instabile e ancora difficilmente leggibile. Eppure, mentre il nuovo governo tenta di accreditarsi come legittimo interlocutore, sono diversi i segnali di apertura, o almeno di pragmatica accettazione, che arrivano da attori regionali e internazionali. Mosca, in particolare, ha reagito con rapidità e decisione al crollo del vecchio regime, intessendo un dialogo con il nuovo establishment siriano e mettendo sul tavolo cooperazione economica, sostegno infrastrutturale e presenza militare stabile (le basi di Hmeimim e Tartus non sono mai state messe in discussione).

→ Leggi anche: Manovre di riavvicinamento tra Mosca e Damasco

Questo rinnovato asse tra la Russia di Putin e la Siria di al-Sharaa è stato reso possibile anche grazie alla mediazione della Turchia. Recep Tayyip Erdogan ha scelto di spingere per un accordo tra il Cremlino e il nuovo leader siriano, nella convinzione che una Siria sotto influenza russo-turca possa bilanciare la presenza americana e contenere l’attivismo israeliano in Siria. Israele, dal canto suo, nelle ultime settimane ha colpito obiettivi militari siriani a Homs e Latakia, zone sensibili anche per l’intelligence turca, nel tentativo di ostacolare ogni consolidamento dell’influenza russo-turca nella regione.

Pechino resta guardinga

Ma se Mosca e Ankara sembrano pronte a investire nel nuovo corso siriano, lo stesso non si può dire della Cina. A preoccupare Pechino è soprattutto la crescente presenza di miliziani uiguri del Partito islamico del Turkestan (Turkestan Islamic Party, Tip) tra le fila delle forze armate siriane. Circa 3.500 combattenti sarebbero stati integrati nella nuova 84ª divisione dell’esercito, suscitando forti timori nel governo cinese. Il Tip è considerato un gruppo terrorista con legami storici con al-Qaeda e con un’agenda dichiaratamente anti-cinese, centrata sulla «liberazione dello Xinjiang», regione autonoma della Cina che i miliziani chiamano Turkestan Orientale.

Secondo l’intelligence di Pechino, il rischio è duplice: da un lato, la Siria potrebbe diventare un centro nevralgico per l’addestramento e il rafforzamento del jihad uiguro; dall’altro, vi è il timore che questi miliziani, una volta formati e radicalizzati, possano tornare clandestinamente in Asia centrale o ispirare nuove cellule terroristiche nella regione. Il precedente afghano è ancora una ferita aperta per l’apparato di sicurezza cinese.

Damasco sotto osservazione

Per questo, la Cina ha adottato una linea prudente e difensiva. Nonostante il mantenimento di relazioni diplomatiche minime, Pechino ha bloccato qualsiasi iniziativa volta a revocare le sanzioni Onu contro al-Sharaa e i suoi principali collaboratori, opponendosi anche alla loro rimozione dalle liste delle organizzazioni terroristiche. Sul piano economico, ha congelato ogni investimento in Siria, ha escluso il Paese dai corridoi strategici della Nuova Via della Seta e continua a porre il veto su ogni tentativo di reintegrazione internazionale del nuovo governo, finché non verranno presi provvedimenti concreti contro il Partito islamico del Turkestan.

Altrove porte aperte

Intanto, mentre la Cina resta alla finestra, il nuovo esecutivo siriano incassa appoggi (espliciti o taciti) da molti fronti. Arabia Saudita, Qatar, Egitto, Iraq e naturalmente la Turchia hanno avviato contatti ufficiali con il governo di Damasco. Persino la Russia ha iniziato a considerare la possibilità di rimuovere Hayat Tahrir al-Sham (l’Organizzazione per la liberazione della Siria) dalle liste nere internazionali. In Europa, Francia e Unione europea hanno aperto canali di dialogo, mentre il Regno Unito starebbe rivalutando la classificazione del gruppo terrorista. Gli Stati Uniti, pur mantenendo una posizione pubblica a dir poco ambigua, sembrerebbero disposti a tollerare l’integrazione di ex-jihadisti nell’esercito regolare, considerandola un argine più efficace contro il caos rispetto alla frammentazione delle milizie fuori controllo.

Ma il vero banco di prova per al-Sharaa resta interno. La Siria post-bellica è un Paese lacerato, dove il nuovo governo è costretto a bilanciare le richieste dei suoi alleati islamisti più radicali con le pressioni della comunità internazionale. Il nodo centrale è la nuova Costituzione: settori salafiti spingono per una rigida applicazione della sharia, mentre minoranze religiose (cristiani, alawiti, drusi) e i governi occidentali chiedono garanzie su libertà di culto, diritti civili e rappresentanza politica.

In questo quadro già fragile, si inserisce anche il conflitto con le Forze democratiche siriane (Sdf) a guida curda e sostenute dagli Stati Uniti. L’esclusione dei curdi dal processo politico rischia di consolidare una Siria «a pezzi», dove il potere centrale convive con zone autonome de facto, senza una visione condivisa del futuro nazionale. Le tensioni nel nord-est, unite alle manovre militari turche nel nord e alla continua pressione israeliana nel sud, rendono il quadro ancora più instabile.

La Siria, insomma, resta una polveriera.

(la versione originaria di questo articolo è stata pubblicata il 15 ottobre 2025)

Ultimo aggiornamento: 16/10/2025 12:23


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