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Netanyahu all’Onu, i cristiani palestinesi denunciano una menzogna

Terresainte.net
1 ottobre 2025
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Netanyahu all’Onu, i cristiani palestinesi denunciano una menzogna
Fedeli cristiani ortodossi partecipano alla cerimonia del Fuoco sacro presso la chiesa della Natività a Betlemme, in Cisgiordania, 19 aprile 2025. (foto Wisam Hashlamoun/Flash90)

Quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu accusa l’Autorità Nazionale Palestinese di far fuggire i cristiani dalla Palestina, questi ultimi insorgono, perché ritengono che siano le politiche dei vari governi israeliani a spingere i cristiani a emigrare dalla Palestina. E anche da Israele, come mostrano i numeri.


Il 26 settembre 2025, davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dedicato parte del suo discorso all’Autorità Nazionale Palestinese. L’ha accusata di «remunerare e glorificare gli assassini di ebrei», ma anche di incoraggiare coloro che «uccidono i cristiani». Andando oltre, ha attribuito il declino della presenza cristiana a Betlemme – che, a suo dire, era scesa dall’80 per cento al tempo del controllo israeliano a «meno del 20 per cento» sotto l’Autorità Nazionale Palestinese – alla cattiva gestione palestinese.

Questo paragrafo ha immediatamente suscitato una reazione indignata da parte dei rappresentanti cristiani palestinesi, che vi vedono una falsificazione della storia e della loro realtà quotidiana.

«È l’occupazione che danneggia i cristiani»

La dichiarazione più attesa e ampiamente diffusa è quella del gruppo «Una voce da Gerusalemme per la Giustizia». Pubblicata il 27 settembre, accusa Netanyahu di «menzogna» e gli nega qualsiasi diritto di parlare a nome dei cristiani palestinesi.

Il testo ricorda che Betlemme era ancora una città a maggioranza cristiana fino al 1948, con oltre l’80 per cento di cristiani. La situazione demografica si è invertita dopo la Nakba (750mila rifugiati palestinesi furono espulsi, alcuni dei quali a Betlemme, modificando la composizione demografica della città) e poi con l’occupazione israeliana nel 1967, ben prima dell’esistenza dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Secondo questo comunicato stampa, sono le condizioni imposte dall’occupazione a spingere cristiani e musulmani ad abbandonare Betlemme oggi: la confisca delle terre, il muro di separazione, i posti di blocco, i permessi di soggiorno discriminatori e il crollo del turismo dall’inizio della guerra a Gaza. «Cristiani e musulmani continuano a vivere insieme come un solo popolo, condividendo le stesse lotte sotto l’occupazione», prosegue il testo.

I numeri parlano

I dati disponibili confermano questa interpretazione. In Palestina, secondo fonti del Patriarcato latino, 162 famiglie cristiane hanno lasciato la Cisgiordania negli ultimi due anni. I giovani con titoli di studio esprimono in modo schiacciante il desiderio di emigrare, citando la mancanza di prospettive e il timore della violenza dei coloni.

Cosa ancora più sorprendente, anche i cristiani palestinesi che vivono in Israele e sono in possesso del passaporto israeliano non si sentono particolarmente felici. Un sondaggio del Rossing Center condotto nel 2024 ha rivelato che il 37 per cento dei cristiani sta prendendo in considerazione l’idea di lasciare il Paese. La tendenza è ancora più pronunciata tra i giovani: il 48 per cento di chi ha meno di 30 anni e il 52 per cento di quelli tra i 30 e i 44 anni. Le ragioni sono diverse: insicurezza a Gerusalemme Est, violenza criminale nelle aree arabe di Israele (come Nazaret), difficoltà economiche e mancanza di accesso agli alloggi.

Una netta maggioranza degli intervistati (64,8 per cento) ritiene inoltre che la Legge sullo Stato-Nazione del 2018 confermi che i cristiani sono considerati cittadini di seconda classe nello Stato ebraico.

Questi dati mostrano che la partenza dei cristiani non è legata all’Autorità Nazionale Palestinese in sé, ma a un contesto di occupazione, restrizioni e crisi prolungata.

→ Leggi anche: I sacerdoti di Taybeh contro i nuovi attacchi dei coloni israeliani

Un’altra dichiarazione, pubblicata lo stesso giorno dall’Alto comitato presidenziale per gli Affari ecclesiastici in Palestina, ha anch’essa denunciato le «menzogne» del primo ministro Netanyahu. Con un linguaggio più duro, ha parlato di «pulizia etnica», «apartheid» e «genocidio». Ha ricordato la lunga storia di espulsioni (Iqrit e Kafr Bir’im, entrambe situate in Israele), attacchi alle chiese di Gaza, restrizioni al culto a Gerusalemme e saccheggi delle proprietà del Patriarcato.

Sebbene esprima la rabbia ufficiale dei palestinesi, questo testo ha un peso meno pastorale di quello di «Una voce da Gerusalemme per la giustizia», ​​più vicino ai sentimenti dei fedeli.

Una preoccupazione comune

In definitiva, le reazioni cristiane alle Nazioni Unite sottolineano la stessa convinzione: le cause dell’esodo cristiano non risiedono nel governo palestinese, ma nelle politiche israeliane. A Betlemme, come nel resto della Cisgiordania e a Gerusalemme Est, sono il muro, i coloni e il soffocamento economico che spingono le famiglie e le giovani generazioni a cercare un futuro altrove.

La risposta palestinese alle dichiarazioni di Netanyahu non è quindi solo una negazione: è anche un grido d’allarme. Se nulla cambia, l’emorragia demografica rischia di accelerare.


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