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In costante aumento le lavoratrici arabe israeliane

Giulia Ceccutti
31 ottobre 2025
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In costante aumento le lavoratrici arabe israeliane
In questo scatto d'archivio del 2015, una cittadina israeliana palestinese al lavoro in un centro di assistenza telefonica nella cittadina di Hura nel deserto del Neghev. (foto Miriam Alster/Flash90)

Oggi il tasso di occupazione delle donne palestinesi con cittadinanza israeliana è poco sotto al 50 per cento. Un dato impensabile solo vent’anni fa, ci spiega Amnon Be’eri-Sulitzeanu dell'ong The Abraham Initiatives.


«Molti pensano che i palestinesi vivano solo in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e all’estero, fuori da Israele. Ma non è così. Il 20 per cento della popolazione in Israele è palestinese». Dall’altra parte dello schermo, in videochiamata, c’è Amnon Be’eri-Sulitzeanu, ebreo israeliano, da oltre vent’anni co-direttore – insieme a un collega palestinese – di The Abraham Initiatives.

Parliamo di un’organizzazione non governativa israeliana che, dal 1989, lavora per promuovere uguali diritti tra i cittadini israeliani, ebrei o palestinesi che siano. «Il nostro lavoro, o per meglio dire la nostra missione nella vita, è fare in modo che ebrei e palestinesi possano coesistere in Israele e godere di condizioni di vita e di lavoro su un piano di parità», premette Be’eri-Sulitzeanu all’inizio dell’intervista.

Gli chiediamo un’analisi e un commento sul quadro della popolazione palestinese in Israele a partire da un dato per certi versi sorprendente: a maggio 2025 il tasso di occupazione delle donne arabe nel Paese ha raggiunto il 49,4 per cento. Un dato impensabile solo vent’anni fa. Nel 2006, infatti, solo il 18 per cento delle donne arabe in Israele aveva un lavoro, rispetto a oltre il 53 per cento delle donne ebree.

• Come possiamo interpretare gli ultimi dati riguardo al coinvolgimento nel mondo del lavoro delle donne arabe in Israele?

Nel 2025 il tasso di occupazione delle donne arabe è quasi triplicato rispetto al 2006. Gli economisti stimano che questo balzo contribuisca annualmente con circa 15 miliardi di shekel (quasi 4 miliardi di euro – ndr) al Pil di Israele. Il governo ora si è dato l’obiettivo ufficiale del 53 per cento entro il 2030, un obiettivo realistico, che potrebbe persino essere superato se le tendenze attuali continuassero. Bisogna però essere chiari: permangono gravi disparità. I salari delle donne arabe sono ancora appena la metà di quelli delle donne ebree; molte, poi, sono impiegate in lavori poco retribuiti. C’è comunque una traiettoria positiva innegabile, e su questa linea bisogna proseguire.

• Qual è oggi il quadro più ampio in cui si inserisce il tema dell’occupazione femminile palestinese israeliana?

Va precisato subito che in Israele esistono disparità tra cittadini ebrei e arabi in ogni settore, in ogni ambito, in ogni aspetto immaginabile di vita: medico, sociale, economico. Gli ebrei – sintetizzo – stanno meglio degli arabi. Ricevono servizi migliori e tali servizi sono adeguati solo alle esigenze della popolazione ebraica. Il campo della sanità, ad esempio, è eloquente. Mostra come le cose qui siano «quasi uguali», ma non perfettamente uguali.
Permane anche la barriera linguistica: la lingua rappresenta ancora un ostacolo reale. Molti arabi per poter avere accesso ad aziende ebraiche o per poter fare carriera devono parlare correntemente l’ebraico, ma in tanti casi questo, per come è strutturato il sistema d’istruzione, non è possibile. Inoltre, nelle città a forte componente araba non ci sono sufficienti opportunità. Mi riferisco a posti di lavoro (fabbriche, negozi, centri commerciali…) e servizi (trasporti, asili e via di seguito). Se sei madre e vuoi lavorare, hai bisogno di un asilo nido o di una scuola materna dove lasciare tuo figlio: in molti posti e quartieri arabi in Israele semplicemente non ci sono asili nido né scuole dell’infanzia.

• Cosa occorrerebbe per ridurre questo divario?

Ci sono molti servizi su cui il governo deve ancora investire per poter garantire vera parità tra ebrei e arabi. Al governo spetta presentare un “pacchetto” inclusivo. Deve sviluppare non solo imprese e luoghi come opportunità di lavoro, ma anche migliorare i servizi di trasporto, assistenza sociale, istruzione e assistenza sanitaria.

• The Abraham Initiatives lavora su questi temi da più di trent’anni. Qual è la vostra esperienza e il rapporto con il lavoro del governo?

Parto da un esempio. Intorno al 2008, abbiamo compreso che uno dei motivi principali della povertà della popolazione araba era il fatto che le donne non lavoravano fuori casa. Quando siamo andati dal governo per chiedere cosa stesse facendo al riguardo, ci è stato risposto che era «una questione di mentalità», contro la quale non si poteva fare nulla. Nell’opinione del governo di allora, in breve, una cultura patriarcale, barriere interne di carattere culturale e sociale non avrebbero permesso alle donne arabe del Paese di lavorare fuori casa. Così, abbiamo deciso di dare vita a un programma sperimentale, un progetto-pilota chiamato Sharikat Haya (che potremmo tradurre con «Compagne di vita» – ndr), per valutare la possibilità di integrare le cittadine arabe nel mercato del lavoro. Ci siamo rivolti alle particolarmente alle donne escluse dal mercato del lavoro: senza laurea, con figli, che non avevano mai lavorato. Ci siamo detti: «Se riusciremo a dimostrare che questa fetta di popolazione può essere integrata, il governo si convincerà». Ed è esattamente quello che è successo.

• Quali erano le caratteristiche di questo vostro programma?

Si svolgeva in diverse località arabe nel nord e nel sud di Israele, in luoghi periferici dove la povertà è davvero elevata. In ciascuna di queste comunità abbiamo coinvolto un coordinatore locale. Siamo riusciti a convincere le donne a partecipare al programma in modi diversi: talvolta attraverso i loro figli, parlando nelle scuole; a volte attraverso i genitori. Abbiamo anche lavorato con i mariti, spiegando che una delle cause della loro condizione di povertà era il fatto che le mogli non lavoravano, e aggiungendo che questo non avrebbe danneggiato la loro tradizione, religione, cultura.

• Quali risultati avete conseguito?

L’esito è stato decisamente positivo. Nell’arco di cinque anni, oltre la metà delle partecipanti è stata inserita con successo in qualche luogo di lavoro. Il progetto ha dimostrato che le donne arabe non solo possono lavorare, ma possono anche ottenere promozioni e – elemento più importante – strappare le loro famiglie dal circolo vizioso della povertà. Così, siamo tornati dal governo, abbiamo mostrato i risultati e chiesto di ampliarli su scala più ampia. Ed è quello che ha fatto. È accaduto molti anni fa, ma posso dire che è successo davvero: l’allora ministro del Welfare, Isaac Herzog (l’attuale capo dello Stato – ndr), fece in modo che il programma si allargasse a livello nazionale. Ciò ha aperto la strada all’inclusione dell’obiettivo di incoraggiare l’occupazione delle donne arabe nella Risoluzione governativa 922, del 2015.

• Che cos’è la Risoluzione governativa 922?

È stata il primo piano quinquennale governativo volto a ridurre il divario socioeconomico nel Paese. È stata inoltre il primo piano di sviluppo economico globale per la società araba. Con questa Risoluzione, il governo israeliano ha riconosciuto che il fatto che i cittadini arabi di Israele siano poveri non solo è molto negativo per loro, ma anche per l’economia israeliana nel suo complesso. Se l’economia israeliana deve crescere, un modo per aiutarla è investire di più nella comunità araba. Al momento è in atto la Risoluzione governativa 550: un piano quinquennale (dal 2022 al 2026) per il progresso economico della minoranza araba.

• Che posizione ha in proposito il governo in carica?

L’attuale governo sta causando senza dubbio molti danni perché non si cura dei cittadini arabi, ma non tutto è perduto. Lo ribadisco. Non tutto è perfetto, ma nel ministero delle Finanze, e in quelli del Commercio e del Welfare, ci sono professionisti che portano avanti le istanze per cui anche noi lavoriamo, quelle riassunte nel progetto Sharikat Haya. E su questo noi contiamo.


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