A Teheran è in corso l'esodo di molti abitanti verso località più al riparo dai bombardamenti che Israele ha scatenato dal 13 giugno scorso. Non tutti fuggono però. E anche chi contesta gli ayatollah chiede che l'Iran non venga devastato.
Lunge code alle pompe di benzina e nei supermercati, lunghe file di macchine incolonnate che cercano di lasciare la città, lunghe notti di insonnia e di terrore, perché i missili israeliani che cadono dal cielo e le autobombe fatte saltare dal Mossad per le strade sono esplose in quartieri civili, vicino a casa. Sono i racconti che arrivano da Teheran da conoscenti o da persone intervistate da televisioni internazionali come la Bbc. «Chi può cerca di lasciare la città e andare nelle case di famiglia in campagna o verso il Mar Caspio» ci dice Hamed, un imprenditore. Le sue parole descrivono paura, confusione, un senso di impotenza e disperazione. È una fuga per la sopravvivenza. Non è stato del resto anche il presidente statunitense Donald Trump – quest’oggi, 17 giugno 2025 – ad intimare l’evacuazione di Teheran, dopo un G7 che, ieri, ha dato riconosciuto il “diritto all’autodifesa” di Israele ed ha definito l’Iran come la principale fonte di «instabilità e terrore» in Medio Oriente?
«Non si deve permettere che la mia bellissima Teheran si trasformi in una nuova Gaza», dice una studentessa di musica alla Bbc. Lei non è andata via. «Mio padre sostiene che è più dignitoso morire nella propria casa che scappare». La ragazza, in questi ultimi anni, ha partecipato alla rivolta del velo ed è una dei tantissimi iraniani, rimasti intrappolarti tra un sentimento di opposizione, se non di odio, verso il proprio regime, e l’aggressione di Israele, un Paese che vuole devastare l’Iran e che ha mostrato (e continua a mostrare) a Gaza ciò di cui è capace. «Non vogliamo che sia Israele a salvarci».
Un’altra donna, sempre alla Bbc, racconta di aver provato una strana gioia quando, durante l’attacco a sorpresa israeliano nelle prime ore di venerdì 13 giugno, sono stati uccisi alcuni potenti capi militari iraniani. Dal secondo giorno, però, ha cominciato a rendersi conto che tanti civili, come lei, perdevano la vita, e i suoi sentimenti sono mutati: dolore, paura, tristezza e infine rabbia, al pensiero che Israele stesse cercando di trasformare l’Iran in un cumulo di macerie.
Sul sentimento patriottico della popolazione, i dirigenti iraniani contano ed hanno già trovato il primo simbolo della resistenza iraniana. Si tratta di Sahar Emami, la conduttrice della tivù pubblica iraniana, che ieri ha proseguito senza paura la diretta, durante l’attacco aereo israeliano contro la sede della televisione di Stato. «Il rumore che state sentendo è il rumore dell’aggressore che sta colpendo la nostra patria», ha detto, scuotendo l’indice davanti alla telecamera, mentre dalla parete cadevano pietre e nuvole di polvere. La donna ha poi lasciato lo studio per mettersi in salvo. I media nazionali e il Parlamento (Majlis) l’hanno subito additata come l’emblema del coraggio iraniano. Resta però tutto da vedere se anche questa volta, la maggioranza della popolazione iraniana si compatterà nel suo tradizionale nazionalismo contro l’aggressore, come avvenne nel 1980 contro l’Iraq di Saddam Hussein.