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Margalit: «In Israele stiamo scavando la nostra fossa»

Francesco Pistocchini
12 giugno 2025
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Margalit: «In Israele stiamo scavando la nostra fossa»
Un militare israeliano dell’unità Netzah Yehuda, una milizia composta solo da ebrei religiosi. (foto Chaim Goldberg/Flash90)

Da Gerusalemme Meir Margalit ci parla del precipizio verso cui si sta spingendo il Paese. Questo storico e attivista è una voce autorevole dell'opposizione al governo e alla maggioranza dell'opinione pubblica che non vogliono mettere fine alla guerra. «Solo con forti pressioni internazionali Israele si può salvare».


Ebreo israeliano di origine argentina, Meir Margalit è un esperto del conflitto israelo-palestinese. Negli anni Settanta fu tra i fondatori dell’insediamento di Netzarim, nella Striscia di Gaza e partecipò alla guerra del Kippur (1973). Fu allora che cambiò radicalmente il suo approccio alla questione arabo-israeliana.
È stato per anni membro del Consiglio comunale di Gerusalemme in rappresentanza del partito di sinistra Meretz, consigliere in diversi organismi dell’Onu e co-fondatore di Icahd, una delle più importanti organizzazioni per i diritti umani nel Paese, il Comitato israeliano contro le demolizioni di case.

  • Da osservatore interno, come valuta la società israeliana dopo venti mesi di guerra a Gaza?

È una domanda difficile, perché tutto sta cambiando e niente è come prima dell’inizio della guerra, ma non si sono ancora consolidati i nuovi modelli di pensiero e di azione. Posso dire che è una società dominata dalla paura. La paura ha le sue ragioni storiche, il popolo ebraico ha sofferto nei secoli persecuzioni e l’Olocausto, la paura è nella pelle del popolo. Nonostante il fatto che siamo una potenza atomica, abbiamo una paura sviluppata nel corso del tempo.

L’attacco del 7 ottobre 2023 ha liberato tutti i fantasmi e i timori che gli israeliani hanno interiorizzato, e hanno reagito. Ma una caratteristica della paura è che ha un effetto sulla capacità di pensare in modo sensato. Abbiamo smesso di ragionare: da un lato, per la paura e, dall’altro, per tutte le caratteristiche che si stavano sviluppando in Israele fin dalla sua fondazione. Mi riferisco in particolare alle sue caratteristiche militariste. L’unione di paura e militarismo ci ha portato alla situazione attuale, in cui il popolo non è capace di riconoscere le barbarità che sta commettendo con le proprie mani.

  • Reuven Rivlin, presidente di Israele dal 2014 al 2021, parlò di un Paese diviso in gruppi minoritari: gli ebrei secolari, cioè laici; i sionisti religiosi; gli haredim (ultraortodossi); gli arabi. Componenti di una società divisa…

La società israeliana è un crogiolo di culture. In epoca di relativa tranquillità, questi gruppi etnici e nazionali, queste culture hanno sviluppato un qualche tipo di modus vivendi, in cui più o meno potevamo convivere gli uni vicino agli altri. La guerra ha acutizzato le differenze tra i diversi gruppi e oggi praticamente non resta molto di questa convivenza che c’era prima del 7 ottobre. Oggi stanno in relazioni antagoniste, gli uni contro gli altri. Per esempio, le relazioni tra gli haredim e la popolazione che svolge il servizio militare sono estremamente tese. Gli ebrei ultraortodossi non contribuiscono all’esercito, per dedicarsi allo studio della Torah. I laici e i religiosi nazionalisti dicono che in epoca di guerra tutti devono contribuire in modo equo e questo ha portato allo scontro.

C’è poi la tensione tra quelli che vogliono continuare la guerra fino alla sconfitta totale di Hamas e i gruppi liberali che sostengono che questa guerra non ha senso e bisogna finirla il prima possibile. Siamo in una situazione di tensione tra tutte queste componenti. Oggi non c’è nessun denominatore comune che permette di costituire una società più o meno omogenea.

  • E l’opposizione interna, composta dai gruppi liberali o i partiti di sinistra ormai quasi scomparsi, non ha abbastanza forza per cambiare la situazione.

Il tempo di guerra favorisce la destra estrema. I gruppi pacifisti, liberali, di sinistra, di solito spariscono. La sinistra in Israele è scomparsa dalla mappa politica e i liberali sono in caduta perché il discorso liberale non dice quello che il popolo vuole sentire: la vittoria assoluta, la distruzione. La maggioranza dice che Hamas e Gaza sono la stessa cosa e perciò non è sufficiente scardinare Hamas; occorre trovare il modo di distruggere tutta la Striscia di Gaza. I liberali sostengono invece che, dopo 50 o 60mila morti, abbiamo vinto la guerra e non c’è motivo di continuare a combattere ed è il momento di retrocedere. Israele non può mantenere questo ritmo di guerra in modo indefinito. La maggioranza del popolo però non lo accetta.

Meir Margalit

  • Il rischio di isolamento internazionale per Israele, allora, non è visto come un problema dall’opinione pubblica?

Per nulla. Se arrivassimo al punto che i Paesi europei non permettono agli israeliani di entrare, o a Israele di partecipare all’Eurovision, oppure alla squadra del Maccabi Tel Aviv di giocare nelle coppe europee di calcio… Ecco, se arrivassimo a situazioni simili, la gente incomincerebbe forse a riconsiderare la situazione.

Ma gli israeliani possono invece viaggiare verso qualunque spiaggia in Europa, possono andare a Maiorca, addirittura ad Antalya in Turchia, senza che nessuno dia loro fastidio. E quindi non sono disturbati da questo isolamento, dalle critiche delle Nazioni Unite. L’economia funziona e pensano di poter continuare a fare affari senza inconvenienti.

  • Le distruzioni e le uccisioni a Gaza hanno senz’altro favorito sentimenti antisraeliani…

Non basta il sentimento antisraeliano. Quello di cui abbiamo bisogno sono sanzioni, non sentimenti, né critiche, né votazioni. Abbiamo bisogno di sanzioni chiare. Per esempio, l’accordo di scambio economico tra Europa e Israele va annullato immediatamente. L’economia di Israele deve percepire che l’Europa non appoggia lo Stato di Israele. Serve urgentemente che l’Europa riconosca lo Stato palestinese, che la Palestina diventi uno Stato membro dell’Onu e che le Nazioni Unite vengano in aiuto allo Stato palestinese, perché uno Stato vicino – Israele – sta violando il diritto internazionale.

  • L’odio dei palestinesi è solo aumentato, accrescendo l’insicurezza dello Stato di Israele.

Certo, ma gli israeliani non lo capiscono, paralizzati da questa paura di cui parlavo all’inizio. Con danni causati non solo ai palestinesi, ma con danni che stiamo causando a noi stessi. È chiaro che per ogni palestinese che uccidiamo c e ne saranno almeno dieci che vogliono vendicare la morte dei loro cari. Intanto per i palestinesi in Cisgiordania i militanti di Hamas si sono tramutati in modelli. Per i palestinesi sono diventati eroi, idoli della lotta nazionale. Magari portiamo a termine lo scontro a Gaza e nel frattempo favoriamo il radicamento di Hamas in Cisgiordania. Così siamo in un circolo vizioso e Israele non lo capisce. O meglio: qualcuno lo capisce, ma non se ne preoccupa. Per esempio, gli ambienti religiosi nazionalisti di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich affermano: «Bene, serve che la Cisgiordania acquisisca il modello di Gaza perché ci darà la scusa per fare in Cisgiordania quello che siamo facendo a Gaza e in questo modo avremo il pretesto per annettere la Cisgiordania, distruggere per sempre l’Autorità palestinese e il piano dei due Stati».
La maggioranza non capisce che stiamo scavando la nostra stessa fossa. Ma quelli che lo capiscono sono molto soddisfatti per quanto accade in Cisgiordania. Gente per cui più sono i nemici e meglio è.

  • Sempre più israeliani decidono di lasciare il Paese: nel 2024 più di 80mila sono emigrati, specialmente negli Usa e in Europa. Cosa pensa di questo fenomeno?

Comprendo bene quelli che dicono che in questo Paese non si può più vivere. Come si fa a desiderare di avere dei figli, quando gli alti comandi militari dicono che questa guerra andrà avanti all’infinito? La cosa più naturale per dei genitori è dire: «No, mio figlio non lo mando a combattere in Cisgiordania o a Gaza». Quindi capisco le loro motivazioni. Dall’altro lato, mi preoccupa il fatto che queste persone che lasciano il Paese hanno più o meno il mio stesso profilo, alle prossime elezioni potrebbero votare per i partiti pacifisti, liberali… Ho visto uno studio recente secondo cui negli ultimi anni abbiamo perso ben 4 seggi al parlamento (sui 120 della Knesset – ndr), proprio per gli elettori che hanno lasciato il Paese.

A medio termine, significa che i cittadini che oggi contribuiscono di più all’economia di Israele se ne stanno andando. Resteranno gli haredim e gli arabi, ma non basteranno a sostenere economicamente il Paese. In altre parole, il Paese collasserà. Ma forse è meglio così: che collassi. Così non può continuare. Dopo un collasso forse ci saranno le condizioni per tornare a creare qualcosa con basi più etiche. Per costruire un Paese più sensato. Ma perché ciò avvenga, ci vorrà un collasso generale e la gente comincerà a riconsiderare le cose.

  • Le critiche al governo e all’esercito israeliani vengono interpretate e rigettate come segni di antisemitismo. A noi europei, anche a quelli che amano Israele, viene risposto che abbiamo un atteggiamento antisemita. Qual è il la sua opinione a riguardo? Non si può fare una critica politica?

È una grande vergogna. Israele usa questo argomento per chiudere la bocca a tutti quelli che hanno il pieno diritto di criticarlo. È una manipolazione politica, una cosa sporca, del livello più basso possibile. Quando non può dare una risposta logica, accusa il prossimo di antisemitismo. Chiedo agli amici francescani, alla gente di Terra Santa, di non spaventarsi, di non smettere di dire quello che pensano, perché abbiamo bisogno di avere gente valida, in tutto il mondo che dica le cose chiaramente, senza lasciarsi intimidire. E vorrei dedicare un pensiero a un francescano, fra Giorgio Vigna, che è stato commissario di Terra Santa a Torino e che durante il suo servizio in Terra Santa ha lavorato nella Commissione Giustizia e Pace. Da quando è morto nel 2022 ci manca molto, per la sua santità e il suo impegno nella lotta per la pace e la giustizia.

  • Che condizioni occorrono per tornare a immaginare, e rilanciare nel dibattito pubblico, la soluzione dei due Stati o di uno Stato binazionale in cui vivere in pace?

Serve molta pressione internazionale. Ripongo speranza nella iniziativa all’Onu di Francia e Arabia Saudita (che si apre il 17 giugno 2025 – ndr). Che sia come una palla di neve che si trasforma in una valanga di pressione internazionale. Spero che la Francia non faccia marcia indietro. I miei amici dicono che sono naif, tuttavia credo che abbiamo bisogno che Trump e gli Stati Uniti picchino i pugni sul tavolo e dicano: «Enough is enough! Basta, non possiamo continuare a mantenere un Paese che mette in pericolo la pace internazionale». Se gli Usa decidono di interrompere la fornitura di armi e l’appoggio politico, senza dubbio tutto questo finisce.

Un altro partner che mi ha deluso è l’Arabia Saudita. Arabia e Lega Araba potrebbero, non direttamente, ma attraverso gli Stati Uniti, portare a una cessazione della guerra, a un ritorno delle forze israeliane dentro le frontiere, per iniziare a pensare a una soluzione politica, che sia quella dei due Stati o dello Stato binazionale. Ma che inizi una fase nuova.

Questo oggi non è nelle nostre mani. Noi oppositori interni non possiamo fare molto più di quello che stiamo facendo: manifestare, protestare, gridare… Ma le chiavi per una soluzione del conflitto sono della comunità internazionale. Siamo più che mai nelle vostre mani.

  • Un grande sostegno a Israele è arrivato in tutti questi mesi anche da Paesi europei…

Vorrei esprimere questa idea, senza offendere nessuno: ci sono Paesi che appoggiano Israele qualunque cosa faccia. Lo fanno per amore di Israele. Parlo innanzitutto della Germania, dell’Austria, ma non solo… e per motivi storici evidenti. Ma credo che se oggi c’è un Paese antisemita, questo è la Germania. E lo è perché appoggia Israele. Paradossalmente, appoggiare Israele significa appoggiare una politica che ci porta verso il precipizio.

Chi ama veramente Israele deve criticarlo e mettere in atto delle sanzioni. E non solo dire «Amen», ogni volta Israele compie una follia, come sta facendo. Il mondo capisca che tutti quelli che hanno affetto per Israele, per il bene di Israele, devono iniziare a fare pressioni, perché senza il vostro aiuto non saremo capaci di uscirne.

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