Dopo gli annunci del ritiro delle truppe degli Stati Uniti dalla Siria e l'alleggerimento delle sanzioni, i bisogni del Paese restano enormi. Nel governo l'unica donna (e cristiana) si occupa di Lavoro e Affari sociali.
Durante il viaggio in Arabia Saudita del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ha suscitato scalpore l’annuncio della sospensione delle sanzioni imposte da Washington alla Siria, insieme alla nomina dell’ambasciatore in Turchia Thomas Barrack come inviato speciale per la Siria. Il giorno dopo l’annuncio, Trump ha incontrato a Riyadh il presidente ad interim Ahmed al Sharaa definendolo «un tipo tosto, con un forte passato».
La revoca delle sanzioni, ha spiegato nei giorni successivi il segretario di Stato americano Marco Rubio, va letta alla luce della drammatica situazione economica della Siria: il 90 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà; il 70 per cento dipende dagli aiuti umanitari per i bisogni di base; non c’è sicurezza per le minoranze druse e alawite, nel mirino di vendette settarie dopo la caduta del regime di Bashar al-Assad. A tutto ciò si aggiungono i continui raid di Israele – l’ultimo nella notte fra martedì e mercoledì – che alimentano instabilità nel Paese. In questa situazione, ha avvertito Rubio alla commissione Esteri del Senato, «potrebbero mancare poche settimane, non mesi» al crollo del governo siriano e all’implosione del Paese in una guerra civile di proporzioni immani.
La revoca delle sanzioni statunitensi, avviate nel 1979 e rafforzate nel 2011 insieme a quelle dell’Unione europea, è stata per anni al centro del lavoro condotto negli Stati Uniti dalla neo-ministra per il Lavoro e gli Affari sociali in Siria Hind Kabawat, accademica ed esperta di cooperazione umanitaria. «Le sanzioni – ha detto in una recente intervista al quotidiano The New York Times – non hanno più nulla a che vedere, ormai, con la politica in Siria, ma soltanto con le conseguenze che provocano sulla vita delle persone. Oggi il Paese ha fatto parecchi dei compiti che la Casa Bianca ci aveva chiesto di fare: abbiamo spuntato parecchie voci. Se ci sono ancora cose da fare sediamoci e trattiamo».
La nomina di Kabawat in seno al governo, lo scorso 29 marzo, è stata salutata con giubilo per un duplice motivo: sia in quanto unica donna fra i 23 ministri, sia in quanto rappresentante delle minoranze cristiane. Figlia di un diplomatico siriano, al quotidiano americano Kabawat non ha voluto rivelare la sua età ma ha raccontato di esser nata in India e di aver vissuto a Londra e in Egitto prima di rientrare a Damasco, dove ha studiato prima in un collegio di suore e successivamente al liceo francese Charles de Gaulle. Ha conseguito una laurea in Economia e commercio all’università di Damasco ed è profondamente legata alla casa di famiglia nei vicoli del centro storico della capitale, dove ha cresciuto i due figli (è nonna di una bambina) e dove è rientrata nei mesi scorsi con il marito, uomo d’affari.
Ha raccontato di aver sognato per 14 anni il profumo dei fiori d’arancio nel suo giardino: in seguito ad una conferenza nel 2011 a New York sulla società siriana multietnica e multiconfessionale, svolta durante la repressione delle rivolte iniziate a Dera’a, le venne consigliato di non rientrare nel Paese. «A Bashar al Assad non piace la narrazione secondo la quale musulmani e cristiani possono vivere pacificamene insieme» ha detto. Kabawat, che conosceva Bashar al Assad dai tempi della scuola ed era in buoni rapporti con la moglie, parlò più volte durante il suo esilio con Asma al Asad e con la madre del presidente perché il regime negoziasse con chi dimostrava, «ma lui non ha voluto ascoltare nessuno».
Dopo le lauree conseguite all’Università americana di Beirut e alla scuola di Diritto e diplomazia della Tufts University, ha lavorato come avvocato in Canada e dal 2004 dirige il programma sulla Siria al Centro per le religioni, diplomazia e risoluzione dei conflitti della George Mason University ed il Centro siriano per il dialogo, la pace e la riconciliazione di Toronto. Nel 2015 ha fondato l’organizzazione di donne Taskakel per la democratizzazione della Siria. Le sfide che ha davanti con il doppio portafoglio del Lavoro e degli Affari sociali sono immense. «L’importante – ha detto – è che ci siamo liberati di un criminale di guerra. Ora dobbiamo pensare a realizzare quel che c’è da fare».
L’assistenza della comunità internazionale è indispensabile. La revoca delle sanzioni statunitensi, alla quale ha fatto seguito quella dell’Unione europea lo scorso 20 maggio, sta in effetti già consentendo alle monarchie del Golfo e ad altri attori di investire in Siria. Tre giorni dopo l’annuncio di Trump, un’azienda emiratina ha siglato un memorandum di intesa da 800 milioni di dollari con il governo siriano per sviluppare il porto di Tartus ed istituire zone industriali e di libera circolazione delle merci. Qatar e Arabia Saudita hanno pagato il debito estero siriano, permettendo così al Paese di accedere ai prestiti della banca mondiale. Ora si attende che la Siria venga reinserita nel sistema finanziario globale anche con la riammissione nel circuito Swift, che è vitale per le rimesse dall’estero, la circolazione di denaro fra le banche e agevoli transazioni internazionali.
La situazione interna resta però assai incerta: le truppe fedeli al nuovo governo non controllano tutto il Paese e faticano anche a mantenere nei ranghi alcune delle fazioni armate. Ai confini, l’Iraq e il Libano lottano per non soccombere agli attori parastatali che detengono pezzi delle economie dei due Paesi. L’Iran ha sfruttato la debolezza del regime di Assad per destabilizzare la Siria. Milioni di rifugiati nei Paesi limitrofi aspettano di poter rientrare. E l’inviato speciale statunitense Barrack, nei giorni scorsi, ha annunciato che Washington terrà aperta soltanto una base militare su otto e che verrà rivista «l’intera politica estera americana degli ultimi 100 anni in Siria». Ecco perché la revoca delle sanzioni è certamente un passo nella giusta direzione, ma solo se non resterà una mossa isolata.