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Artigiane in fiera a Betlemme: «Creiamo dignità, non solo reddito»

Manuela Borraccino
12 giugno 2025
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Prodotti gastronomici fatti in casa, artigianato, mosaici e accessori: 255 artigiane palestinesi socie dell’impresa sociale Ibtikar hanno allestito per cinque giorni un bazar a Betlemme. Oltre 2.200 clienti da tutta la Cisgiordania.


Fatima, 44 anni, ricamatrice e madre di cinque figli, ha fatto a piedi i quattro chilometri che separano la sua casa-laboratorio a Beit Sahour da Betlemme: lo zaino pieno di keffiyeh e portamonete fatti a mano con il tradizionale ricamo palestinese. «L’anno scorso – racconta a Terrasanta.net – è stato ancora più duro del solito: i prezzi delle stoffe sono saliti, i posti di blocco sono aumentati, e non sono riuscita a raggiungere i mercatini dove andavo di solito».

Heyam, 38 anni, madre di due bambini, conosce a fondo la cucina francese e l’ha reinventata con ingredienti palestinesi: sforna ogni giorno vari chili di pani con za’tar e lievito selvatico, una modalità di fermentazione alternativa al lievito madre anch’essa di origine naturale. «Ho avuto problemi nella panificazione a causa dell’inflazione e dei black-out. Ma i consulenti di Ibtikar – dice – mi hanno aiutato a innovare gli imballaggi, le confezioni, i prezzi e oggi posso andare avanti: è la mia passione e la gente vede nel mio pane qualcosa di speciale, non solo focacce fatte in casa».

Fatima ed Heyam sono due tra le 255 artigiane che hanno dato vita al bazar promosso dall’impresa sociale Ibtikar il 14, 15 e 17 maggio nei cortili del Centro salesiano nella città vecchia di Betlemme e il 19 e 20 maggio in quello dell’Università di Betlemme per dare sollievo alle loro famiglie.

Salse e barattoli con funghi essiccati, mosaici, saponi naturali, bigiotteria confezionata in casa con materiali di recupero: sono venute da tutto il circondario di Betlemme ma anche da Hebron, Gerico, Beit Jala, dai campi profughi di Aia, Al-Khader e Dheisheh per trarre forza dal ritrovarsi insieme a sbarcare il lunario con il frutto delle loro mani.

«Ho iniziato a fare candele dopo un corso di formazione a Ibtikar» racconta Marwa, 28 anni, del campo profughi di Dheisheh. «Prima di allora non producevo reddito, mentre adesso ho qualcosa sul quale posso costruire la mia autonomia: sento di avere uno scopo». Così ha imparato a fare candele con essenze di agrumi. «Nei campi profughi è difficile trovare i materiali che ci servono o vendere all’esterno: ho scoperto quel che è possibile fare in uno spazio piccolo, e a realizzare questo sogno di indipendenza».

Oltre 2.250 tra clienti e visitatori sono venuti a curiosare tra le bancarelle. Non soltanto per comprare, ma anche per fare domande, ascoltare le storie di queste artigiane, creare connessioni. «Non si tratta solo di vendere dei prodotti – spiega la fondatrice e direttrice di Ibtikar, Sulaima Ramadan – ma di dare visibilità alle nostre artigiane, promuovere il senso di appartenenza alla nostra rete, e dare loro la possibilità di vedersi come micro-imprenditrici quali sono».

Secondo l’ultimo rapporto dell’Autorità nazionale palestinese il Pil della Cisgiordania ha subito un crollo del 27 per cento nel 2024 a causa della guerra a Gaza, della crescente violenza nei Territori da parte dei coloni, della perdita del lavoro di centinaia di migliaia di palestinesi che lavoravano in Israele e dell’aumento dei check–point che ha messo ulteriormente in ginocchio la mobilità nei Territori palestinesi. La situazione potrebbe precipitare, avverte Al Jazeera, in seguito alle sanzioni comminate il 10 giugno da cinque governi occidentali contro i ministri Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir: per ritorsione Smotrich ha cancellato l’erogazione di indennità del sistema bancario israeliano dalle quali le banche palestinesi dipendono per i loro servizi di credito, non avendo un proprio sistema monetario. Anche per questo cresce il peso del welfare generativo creato da incubatori d’impresa come quello fondato nel 2019 da Sulaima Ramadan e sostenuto da diverse agenzie umanitarie internazionali, in attesa che l’economia palestinese non abbia più bisogno di assistenzialismo.

«Dopo che mio marito ha perso il lavoro nel novembre 2023 – racconta Fatima – i miei accessori ricamati a punto croce sono diventati l’unica fonte di reddito per la mia famiglia. Ibtikar mi ha dato un luogo dove essere orgogliosa di quello che faccio: ci fanno sentire professioniste, non soltanto partecipanti ai corsi». Le fa eco Samira, del campo profughi di Aida, che ha iniziato nella sua cucina a fare saponette di lavanda e di limone e oggi riceve ordini per addobbi di matrimoni ed eventi. «Sono grata a chi ci ha aiutato a mettere in piedi le nostre botteghe – dice – perché con loro abbiamo trovato le idee, scoperto i nostri talenti, e soprattutto perché non siamo destinatarie di gesti di carità ma veniamo messe in condizioni di produrre reddito all’interno delle nostre realtà».

I rapporti della Banca mondiale sottolineano come il tasso ufficiale di occupazione femminile palestinese sia fermo al 17,4 per cento, uno dei più bassi del mondo, ma anche come aumenti la quota di donne che producono reddito nella cosiddetta economia informale, nel sommerso. È ormai sempre più diffusa la pratica nata nei Paesi in via di sviluppo a metà degli anni Novanta dell’empowerment, come recita anche la denominazione di Ibtikar, ovvero il processo di acquisizione di poteri, autorità e responsabilità delle donne teso alla costruzione della loro leadership e presenza nei processi decisionali. Spiega Lina, un’altra artigiana di accessori che ha rinnovato con design tecnologici il tradizionale ricamo palestinese: «I nostri formatori lo chiamano empowerment, per me è anche e soprattutto essere vista, ovvero riconosciuta per il contributo economico che porto a tutta la mia comunità. Qui cerchiamo di costruire dignità e non solo reddito».

«La partecipazione di pubblico che abbiamo avuto – dice Sulaima – ci inorgoglisce perché mostra che, anche in queste condizioni estreme, le donne palestinesi continuano a reagire, a sostenere le loro famiglie e a costruire il futuro della Palestina alle loro condizioni di lavoratrici, non di destinatarie di sussidi». Dai mosaici incorniciati alle tote-bag in tela con bellissimi ricami a punto in croce, l’auspicio di queste artigiane è unanime. «Sosteneteci non con delle donazioni – chiosa Fatima – ma comprando i nostri prodotti come scelta di valorizzare il nostro lavoro e la Palestina: questo è l’aiuto più grande che potete darci».

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