
Per guardare avanti, israeliani e palestinesi hanno bisogno di immaginazione, coraggio e volti nuovi. L’associazione A Land for All, fondata nel 2012, propone una confederazione di due Stati con pari dignità. Ne parliamo con l'avvocata Yael Berda.
Ci vuole molta immaginazione oggi per concepire una confederazione di due Stati sovrani, israeliano e palestinese, dove ebrei e arabi vivano insieme con due parlamenti e due democrazie godendo di pari diritti, assicurati dalla Dichiarazione universale dei diritti umani (del 1948). Condividerebbero il territorio e sarebbero sottoposti sia alle proprie leggi nazionali che a una sorta di diritto comunitario simile a quello che si è dato l’Unione europea, con infrastrutture co-gestite su risorse idriche, ambiente, energia, commercio e salute, con confini tracciati per i due Stati ma senza muri, in piena libertà di movimento e con Gerusalemme città aperta e capitale per entrambi gli Stati.
«L’immaginazione politica è proprio quello che maggiormente manca oggi agli israeliani, perché con il fallimento del processo di Oslo [dei primi anni Novanta – ndr], con la rassegnazione e disperazione provocate dalla guerra si fa fatica anche solo a concepire un’alternativa al conflitto: eppure molti di noi lavorano da tempo a piani concreti e dettagliati sul terreno per realizzare tutto questo» rimarca al telefono da Gerusalemme l’avvocata Yael Berda, esperta in diritti umani e docente associata al dipartimento di Sociologia e Antropologia dell’Università ebraica di Gerusalemme.
La giurista è stata uno dei primi attivisti dell’associazione A Land for All (Una terra per tutti), fondata nel 2012 dal giornalista Meron Rapoport con il palestinese – membro di Fatah – Awni Almashni. Oggi A Land for All conta fra i 5mila e i 10mila attivisti, sotto la co-direzione di due donne: May Pundak, avvocata 39enne e figlia del compianto giornalista e storico israeliano Roni Pundak (che tra i negoziatori di Oslo) e dell’accademica palestinese Rula Hardal. Molti altri stanno partecipando alle iniziative e alla proposta, racconta, nonostante la disillusione che serpeggia nel Paese e il dato di fatto che nelle manifestazioni di piazza si chieda il rilascio degli ostaggi, ma non il ritorno ai negoziati.
Lo scorso 29 aprile 121 intellettuali e accademici di fama internazionale, fra i quali Kenneth Pomeranz and Gisèle Sapiro, hanno rivolto un appello all’Unione europea dalle colonne del quotidiano francese Le Monde per sostenere proprio il progetto di confederazione di Una terra per tutti. Intanto proseguono, ricorda la professoressa Berda, le attività di sensibilizzazione dell’associazione. «Ci sono molti fra noi al lavoro con piani concreti. E posso dirle che stiamo crescendo, tanto in Israele quando nei territori palestinesi. Abbiamo numerosi gruppi di discussione attivi, e ai laboratori di immaginazione politica partecipano fra 300 e 500 persone ogni volta. È lì che cerchiamo di far lavorare le persone sulla loro visione del futuro; chiediamo di ragionare su come vedono il Paese fra cinque o dieci anni, che cosa desidererebbero per Israele. Questo proprio perché vediamo quanta fatica facciano gli israeliani, e non parliamo dei palestinesi, ad intravvedere un’alternativa alla situazione attuale e a non implodere nella disperazione».
«La maggior parte degli israeliani – rimarca Berda – vuole la fine della guerra, ma in questo momento abbiamo un’opposizione politica debole, a fronte di una forte opposizione a Netanyahu nelle strade e da parte della società civile. Il dissenso non si traduce in un potere politico formale anche perché i partiti all’opposizione non hanno un piano per uscire da questa catastrofe. Ciò può esser visto come una tragedia, ma anche come un’opportunità, perché dopo moltissimo tempo da una parte la gente vede che non c’è una via di uscita alla situazione che viviamo, ma dall’altra parte è sotto gli occhi di tutti che questo approccio non fa che aumentare la radicalizzazione, o il ripiegamento di chi dice “Non abbiamo altra scelta che continuare la guerra”. La situazione durissima che viviamo dipende dunque dalla constatazione che non c’è nessuna leadership oggi che possa portare avanti formalmente questa transizione».
Secondo l’associazione A Land for All, insieme al processo di Oslo è fallita anche l’idea della separazione fra israeliani e palestinesi in due Stati separati, divisi lungo i confini precedenti alla guerra del 1967, ovvero prima dell’occupazione militare israeliana di Cisgiordania e Striscia di Gaza. I tentativi fatti fino al 2014 per raggiungere un accordo si sono incagliati sulle dispute circa gli scambi di terre con i palestinesi, un problema che è stato ulteriormente acuito dalla proliferazione di insediamenti in Cisgiordania. Quel che è cambiato dagli Accordi di Oslo, secondo questi attivisti, è dunque la fattibilità di un accordo basato sulla separazione di israeliani e palestinesi.

Yael Berda
Con quasi due milioni di palestinesi cittadini di Israele e più di 500mila coloni stabilitisi a macchia di leopardo in Cisgiordania, i due popoli sono irrevocabilmente intrecciati, ognuno dei due idealmente appeso ad una visione di patria su una terra reclamata da entrambi. La risposta, per loro, non può che essere quella di due Stati confederati su un territorio nazionale condiviso. Gli interrogativi, a riguardo, non mancano; Yael Berda risponde così ad alcuni dei nostri.
• Come pensa che si possa realizzare il necessario cambio di paradigma?
Il primo passo è spazzar via molti cliché. Dobbiamo sbarazzarci di tanti pregiudizi; cambiare linguaggio rispetto a una serie di assiomi per anni percepiti come immutabili; ad esempio il fatto che le differenze fra destra e sinistra sono sul restituire o no delle terre, costruire dei solidi confini con altissimi muri che separino noi e i palestinesi. Sono tutte idee di divisione netta che ci impediscono di fare il minimo progresso in qualsiasi direzione, anziché affrontare quelli che sono i bisogni concreti di israeliani e palestinesi. Occorre guardare con franchezza a come ci sentiamo noi e a come si sentono i palestinesi; che cosa vogliono per la loro vita; quali sono le loro necessità. Allora sì, l’immagine è ben diversa. Per questo riteniamo che Una terra per tutti sia un modello potente; perché non vogliamo cambiare la realtà che si presenta sul terreno, ma piuttosto l’assetto politico di quella realtà. Per anni abbiamo nutrito l’idea che se mettiamo i due popoli da una parte e dall’altra della barricata allora risolveremo tutti i problemi. Il problema è che siamo molto intrecciati sul terreno. Come si fa a far trasferire così tante persone e perché dovremmo farlo? Siamo così sicuri che così facendo risolveremmo i nostri problemi? Uno degli aspetti che abbiamo messo a fuoco con la nostra associazione è che i palestinesi considerano tutta la Palestina loro patria ancestrale, e anche gli ebrei per motivi religiosi e storici considerano questo territorio la loro terra. Le due popolazioni sono quasi indistricabilmente unite. Quindi, a nostro avviso, non ha senso tentare di spostare così tante persone. Per com’è la situazione sul campo non ne vediamo neppure le ragioni. Noi proponiamo di stabilire confini e non muri, con libertà di movimento per tutti. L’Unione europea è il nostro modello. Certamente dobbiamo avere dei confini e una sovranità riconosciuta internazionalmente, dobbiamo avere due parlamenti e ciascun cittadino godrà della propria cittadinanza, ma con libertà di movimento per motivi lavorativi, familiari, economici. Così gestiremo il problema del [diritto al] ritorno e i coloni [ebraici] che accetteranno di deporre le loro armi e rinunciare all’impresa delle colonie, al loro progetto di violenza e di accaparramento territoriale, potranno rimanere in Cisgiordania.
• Che cosa vi fa ritenere che i coloni possano accettare?
Sappiamo che molti di loro non lo vogliono e hanno paura di tutto questo. Ma crediamo nei principi della democrazia maggioritaria e, per questo, nell’opportunità di stabilire confini: in tal modo ciascuno saprà dove si trova e di far parte di una maggioranza o di una minoranza all’interno di un determinato territorio. I palestinesi che decideranno di restare in Israele potranno farlo senza bisogno di trasferirsi, ma consapevoli di costituire una minoranza, senza discriminazioni davanti alla legge. Una parte dello scambio di terre avverrà su territori che non sono proprietà privata ma su terre demaniali a disposizione dello Stato, dove è possibile fare spazio alle comunità perché convivano in pace. Una delle cose che ci ripetono i nostri partner palestinesi è che le loro comunità non si sono mai isolate dagli ebrei, non è mai stato un problema avere dei vicini ebrei, il problema è quando qualcuno arriva con il chiaro intento di espropriazione e sopruso con la violenza. È evidente che la transizione a questa realtà sarà estremamente difficile, richiederà anni e soprattutto due leadership fortemente impegnate e a tutti i livelli: statale, amministrativo, municipale, locale, ma è anche vero che abbiamo forti incentivi per pagare il prezzo di questa transizione: la motivazione più potente è la legittimità, la liceità di rimanere a casa tua, in quella che consideri la tua patria. Dunque di fatto quel che è in gioco è la possibilità di vivere la vita che vorresti, e siamo dell’avviso che una confederazione possa proteggere i diritti individuali e comunitari meglio di quanto farebbe uno Stato solo.

In questo scatto del 2022 coloni ebrei che aderiscono al sionismo religioso intenti a costruire l’avamposto illegale di Derech Emona nei Territori palestinesi di Cisgiordania. (foto Yonatan Sindel/Flash90)
• Con i sostenitori del sionismo religioso che hanno assunto le redini della politica e di gangli vitali della pubblica amministrazione, dell’esercito, dell’economia, come pensate di affermare e imporre questo modello sul terreno?
Il problema è proprio questo: lo strapotere dei coloni è l’esito dell’impunità. Ai coloni è stato permesso per decenni, dai governi che si sono succeduti, di acquisire potere e fare di tutto con piena impunità e piena copertura politica. È come avere un bullo in classe che spadroneggia con i compagni e non solo non viene punito, ma è addirittura protetto e sostenuto dai docenti e dal preside. Quindi sappiamo perfettamente che il problema oggi non è solo togliere potere al bullo, ma smantellare la struttura di potere che ha permesso tutto questo; e questo è un problema ben più grande del bullo in sé. Noi, però, riteniamo che oggi si siano create le condizioni per farlo, e che non sia mai stato facile come oggi.
• Perché mai, secondo lei?
Perché in seguito al tentato coup giudiziario [messo in atto dal sesto governo Netanyahu, attualmente in carica, sin dall’inizio del suo mandato – ndr] un’ampia percentuale del pubblico ebraico israeliano ha visto che i coloni erano dietro la svolta autoritaria dello Stato, erano dietro le guerre e l’aumento dei crimini in Cisgiordania. Non era mai stato così chiaro prima… Tutto questo è diventato evidente adesso. Quello che questi ultimi 20 mesi hanno mostrato al pubblico israeliano è che in gioco non ci sono solo lo Stato di diritto, l’autoritarismo, il futuro della democrazia… ma che il nostro futuro dipenderà dalla soluzione alla questione palestinese. Sono convinta che la percezione generale sia cambiata, benché gli israeliani non si rendano conto che c’è un’opportunità reale, oggi più che mai, di collaborare con la comunità internazionale, che non è affatto antisemita come ci ripete Netanyahu.
• In che modo ritiene che questa presa di coscienza possa sbloccare la situazione?
Ci aiuta non perché tutti quelli che protestano sostengano Una terra per tutti, bensì perché rende molto chiara la distinzione fra chi realmente vuole una soluzione e chi, invece, pensa che gli israeliani siano destinati a «vivere di spada». C’è un altro aspetto che facciamo fatica a far comprendere all’estero, e cioè che i leader non sono i nostri due popoli e che stiamo facendo una fatica immane per trovare dei nuovi leader. Conosciamo la bassissima popolarità di cui gode Netanyahu tra gli israeliani, così come sappiamo che i palestinesi non sono l’Autorità palestinese o Hamas. È ovvio che a condurre questo cambiamento istituzionale non possono essere i leader attuali, e per questo abbiamo così tanto bisogno di aiuto dall’esterno.
• Nell’attuale crisi di leadership globale, chi pensa che possa esercitare questo ruolo dopo così tanti tentativi falliti di risolvere il conflitto israelo-palestinese?
Io penso che il conflitto israelo-palestinese sia il caso emblematico della disgregazione dell’ordine internazionale, perché è proprio qui – ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina – che si è manifestato il disprezzo del diritto internazionale. Che sia l’Unione europea o altre forze, noi ci aspettiamo di essere aiutati a risollevarci da questo abisso e a inventare un percorso possibile verso un accordo, anche se siamo consapevoli che nessuno può attraversare questo cammino al posto nostro. In effetti dobbiamo essere noi a compiere questi passi e a volerli, perché questi trant’anni ci hanno mostrato che talvolta abbiamo sì avuto tante spinte dall’esterno, ma gli accordi che venivano in qualche modo imposti non avevano senso culturalmente qui, e per questo abbiamo imparato l’amara lezione di quanto sia necessario il consenso politico della base per attuare un accordo di pace duraturo. Sono convinta che d’ora in avanti, con tutto quello che è successo in questi 20 mesi, ci verrà detto: «Faremo da mediatori in questo conflitto solo a queste determinate condizioni. Non accetteremo mai più di lavorare per mesi e per anni per poi assistere a questa distruzione». Siamo noi israeliani e palestinesi a dover volere e costruire il sostegno politico a una pace duratura: è davvero l’unica cosa che conta.
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