Dalla Turchia alla Tunisia passando per l’Iran, nella lunga marcia per i diritti delle donne iniziata nell’Ottocento con le suffragiste statunitensi si intravvedono le lotte delle femministe islamiche. Lo racconta un saggio collettaneo a cura delle storiche Raffaella Baritono e Vinzia Fiorino.
Correva l’anno 1930 e Sadiye Hanim venne eletta prima donna sindaco nella provincia di Artvin, nella Turchia nordorientale. Quattro anni dopo, la modifica costituzionale con l’introduzione della possibilità per le donne di votare e di essere votate fece della Turchia uno dei primi Paesi al mondo a garantire alle donne pieni diritti politici e rappresentanza: nelle elezioni del 1935 in 18 entrarono in Parlamento. Sebbene all’epoca sia stato presentato come il risultato della spinta modernizzatrice impressa dal padre della Turchia moderna Mustafa Kemal Ataturk, il voto alle donne fu in realtà il traguardo della mobilitazione intrapresa più di cinquant’anni prima dalle turche che aderirono ai tentativi di riforma dell’Impero ottomano, noti come Tanzimat.
L’elezione di Hanim è solo uno dei tanti episodi che riaffiorano dall’intensa ricostruzione Il voto alle donne. Una storia globale (Il Mulino, 2025) a cura delle storiche Raffaella Baritono e Vinzia Fiorino. Riaffiorano tra le pagine del saggio fresco di stampa i nomi delle pioniere delle lotte per l’affermazione della soggettività femminile nella sfera pubblica e in quella familiare come titolare di diritti propri (ovvero non dipendente da padri, mariti, figli), una lotta in corso ancora oggi in diversi Paesi del mondo. L’ottenimento in Turchia del diritto di votare e di essere votate, ricorda Lea Nocera, si ottenne anche grazie alla tenacia di Nezihe Muhittin (1889 – 1958), scrittrice, insegnante di scienze naturali, fondatrice nel 1923 del Partito popolare delle donne (Kadinlar Halk Firkasi, Khf) e nel 1924 dell’Unione delle donne turche che tanta parte avrebbe avuto nell’ottenimento del suffragio e che venne sciolta il giorno dopo il suo ottenimento.
Sempre nel 1923 in Egitto Hoda Sha’rawi (1879-1947) fondò l’Unione delle femministe egiziane, la prima organizzazione espressamente femminista del mondo arabo. E lo fece proprio al rientro dalla conferenza a Roma dell’Alleanza internazionale per il suffragio femminile (International Alliance for Women’s Suffrage and Equal Citizenship), fondata nel 1904 per rendere più globale la mobilitazione inaugurata oltre cinquant’anni prima con la Convenzione di Seneca Falls del 1848 a New York, considerata il momento fondativo dei movimenti suffragisti statunitensi. Scendendo dal treno, Hoda Sharawi salutò le attiviste che la accoglievano togliendosi il velo, battendosi da allora ancor più tenacemente per il diritto delle donne all’istruzione e al lavoro.
Anche sulla scia del suo esempio sorsero in Tunisia nel 1936 e in Marocco nel 1946 i primi movimenti espressamente femministi, accomunati a quello egiziano dalla consapevolezza che le donne combattevano contro il doppio giogo del dominio coloniale e di quello patriarcale. Proprio in Tunisia, rimarca Leila El Houssi, l’approvazione del Codice di statuto personale nel 1957 poneva il Paese all’avanguardia nel mondo arabo per i diritti delle donne con la messa al bando della poligamia, il diritto al divorzio, il divieto di ripudio. Non è un caso che proprio in Tunisia, prima e dopo la Rivoluzione che nel 2011 ha dato il via alle rivolte arabe, la società civile abbia espresso più che altrove un intenso protagonismo delle donne.
Menzione a parte merita il percorso del femminismo iraniano, distinto dai femminismi islamici a causa delle peculiarità dell’occidentalizzazione forzata imposta nel Paese dopo il colpo di Stato ordito dalla Cia nel 1953 per destituire il premier Mossadeq e rendere possibile il ritorno dello scià Mohammed Reza Pahlavi. Nell’Iran monarchico, spiega Farian Sabahi, il diritto di voto nel 1963 e gli altri cinque pilastri della rivoluzione bianca non furono il risultato di una battaglia della società civile per ottenere maggiori diritti ma la conseguenza delle pressioni statunitensi in chiave antisovietica: la modernizzazione era la conditio sine qua non per gli aiuti provenienti da Washington.
Dagli Stati Uniti alla Nigeria, dalla Gran Bretagna al Messico, passando per l’India e i Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente emersi dai processi di decolonizzazione, le curatrici intendono collocare l’affermazione dei diritti politici e sociali delle donne in una prospettiva che non sia solo quella dello spazio euroamericano. E sottolineare così come nei vari contesti geografici e culturali la conquista dei diritti di cittadinanza non sia stata priva di passi avanti e retromarce, di conflitti interni ed esterni. Ma è stato un cammino, si evince dalle 300 pagine del saggio, contraddistinto da una crescente partecipazione che, insieme all’incremento dell’alta istruzione e dello sviluppo economico, ha fatto del Novecento il secolo delle donne.