
Il presidente statunitense Donald Trump torna a Washington dopo aver visitato tre importanti Paesi del Golfo Persico: Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti. Sembrano esserci buone notizie per la Siria. Per Gaza e per Israele, invece...
Il presidente Trump ha concluso il suo viaggio nei Paesi del Golfo, una tre giorni (dal 13 al 16 maggio 2025) che lo ha portato in Arabia Saudita, in Qatar e negli Emirati Arabi Uniti. Ad Abu Dhabi, capitale degli Emirati, è stato accolto con i più grandi onori e gli è stata conferita la più alta onorificenza civile del Paese.
Termina così un tour, per molti aspetti irrituale (in perfetto stile trumpiano), dal quale sembra emergere chiaro almeno un punto: gli Stati Uniti vogliono chiudere la stagione dell’«esportazione della democrazia» e delle interferenze militari. Il presidente Usa ha certamente aperto alcune vie diplomatiche, ma si è concentrato soprattutto su cosa può produrre profitto nel Golfo, convinto com’è che solo il benessere e lo sviluppo economico (ovviamente in un clima di totale deregulation) può portare alla pace (o per lo meno a una stasi dei conflitti). Per citare un esempio: Donald Trump ha firmato accordi per creare un grande campus che trasformerebbe gli Emirati Arabi Uniti in una potenza dell’intelligenza artificiale. Un progetto che potrebbe avere un’importante ricaduta regionale.
Si rallegra al-Jolani
Le sue dichiarazioni nel corso dei colloqui bilaterali hanno lasciato tuttavia molti interlocutori preoccupati – a dir poco – per l’evidente disinteresse dell’amministrazione americana a proposito dei diritti umani (pensiamo alla Striscia di Gaza) e per la scarsa considerazione del diritto internazionale, e per ciò che questo potrebbe significare per i loro Paesi. Se i diritti umani più elementari (diritto al cibo, all’acqua e alla salute) sono «negoziabili», per non dire calpestabili; se chi fino al giorno prima era un terrorista o un reo di crimini di guerra (vedi il nuovo leader di Damasco, Ahmed al Sharaa alias Abu Mohammed al-Jolani) e adesso viene portato in palmo di mano, cosa ne sarà della libertà e della democrazia di cui gli Usa si sono sempre proclamati paladini?
La questione del «doppio standard» che l’Occidente e gli Usa hanno applicato nella spinosa questione ucraina e nella altrettanto delicata questione mediorientale, che coinvolge più Paesi dell’area (Israele, Palestina, Libano, in primis) non è per nulla gradita alle opinioni pubbliche dei Paesi del Golfo. Se tra il 2017 (anno che dà il la al processo che ha portato nel 2020 alla firma degli Accordi di Abramo) e il 7 ottobre 2023 (data dell’inizio della nuova guerra tra Israele e Hamas) per gli Stati del Golfo la causa palestinese era stata di fatto derubricata a «scocciatura», preferendo concentrarsi su accordi commerciali a vari livelli, la tragedia di Gaza in atto ha costretto a mutare la prospettiva. Ora le monarchie emiratine (ma anche dell’Arabia Saudita) si trovano in una posizione scomoda.
L’inferno di Gaza
Gran parte dell’opinione pubblica dei Paesi del Golfo è indignata dallo «scarso interesse» per Gaza e per la questione palestinese. Trump, che inizialmente si sperava potesse contribuire a raggiungere un cessate il fuoco duraturo a Gaza, è ormai visto come quello della «riviera per ricchi» sulle coste devastate della Striscia; come il tycoon attento al business ma morbido nel contenere il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nella distruzione sistematica di Gaza e dintorni, costata finora almeno 50mila morti.
La nuova fase della strategia del governo israeliano nella Striscia, mente la popolazione civile palestinese è al collasso e sono bloccati gli aiuti umanitari, rende difficile ogni collaborazione dei Paesi della regione per sviluppare gli Accordi di Abramo e normalizzare le relazioni con Israele.
L’Arabia Saudita – anche se i sorrisi tra The Donald e Mbs (il principe ereditario Mohammed Bin Salman) non sono mancati – difficilmente potrà sostenere una normalizzazione non legata a una prospettiva politica per la creazione di uno Stato palestinese. Un significativo passo diplomatico su uno dei conflitti più gravi della regione sembra improbabile nelle attuali condizioni, anche dopo il rilascio da parte di Hamas dell’ultimo ostaggio israelo-statunitense (il soldato 21enne Edan Alexander), un chiaro messaggio al presidente Usa, una sorta di «offerta» diretta di collaborazione forse per escludere gli interlocutori israeliani.
Oltre alla crisi umanitaria a Gaza, i leader del Golfo hanno insistito con il presidente americano sulla necessità di sostenere il nuovo governo in Libano, di fornire un urgente alleggerimento delle sanzioni alla Siria, e di offrire rassicurazioni sugli impegni statunitensi per la stabilità regionale. A seguito dei colloqui in Arabia Saudita, ai quali ha preso parte anche il nuovo rais di Damasco Ahmed al Sharaa, Trump si è detto intenzionato a riconsiderare le sanzioni contro la Siria.
I segnali per Israele
Un aspetto per nulla secondario emerso in questo viaggio è il segnale inviato a Israele, il cui premier Benjamin (Bibi) Netanyahu si trova in una posizione sempre più delicata (per non dire precaria). Donald Trump con la sua business strategy ha rafforzato il legame con i Paesi del Golfo e il mondo arabo, che spinge per porre fine alla guerra a Gaza e per integrare la Siria negli Accordi di Abramo. Viceversa, Netanyahu continua a prospettare un’ulteriore escalation militare nella Striscia di Gaza e a mantenere un atteggiamento ostile verso Damasco.
La guerra a Gaza è in corso da quasi 600 giorni. E potrebbe durare ancora a lungo. Netanyahu, alla guida di una coalizione fortemente condizionata dall’estrema destra, teme che qualsiasi concessione verso una tregua possa costargli la maggioranza in parlamento costringendolo alle dimissioni e a fare i conti con i tanti guai giudiziari che pendono sul suo capo. In più, sul tappeto, c’è il crescente contrasto con l’opinione pubblica israeliana, stanca del conflitto. Nonostante una partecipazione ancora alta dei riservisti (circa il 75 per cento), cresce il malcontento. Secondo un recente sondaggio, il 7 israeliani su 10 danno la priorità alla liberazione degli ostaggi, rispetto alla prosecuzione della guerra. In più il 61 per cento è favorevole alla normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita, che chiede la fine della guerra e la creazione di uno Stato palestinese.
Un cono d’ombra per Bibi
Insomma, fino a poche settimane fa, Netanyahu aveva la certezza di essere l’alleato privilegiato degli Usa nella regione. Dopo il viaggio di Trump, che sta seguendo un’agenda autonoma in Medio Oriente, inizia a maturare nel governo israeliano la sensazione che potrebbe non essere più così. Il tempo della «riviera a Gaza» era appena ieri, ma sembra passato un secolo. Trump, con l’ennesimo giro di giostra e con un pragmatismo che non smette di sconcertare, oggi appare più aperto a soluzioni negoziali, ha abbandonato la retorica bellicosa e appare meno deferente verso le richieste israeliane. La prova principale di questo mutamento sta nella decisione di alleggerire le sanzioni contro la Siria, nonostante l’opposizione di Netanyahu.
L’operazione militare israeliana a Gaza data per certa dallo stato maggiore israeliano e ribadita solo qualche giorno fa, era stata posticipata per non interferire con il viaggio del presidente Usa nella regione. Ma nelle stanze del governo c’è chi si interroga ora se la campagna per la rioccupazione di Gaza non potrebbe sancire un ulteriore, problematico distacco dal potente alleato americano.