Questo libro è uno strumento agile e dallo stile chiaro che – in poco meno di 200 pagine e 36 questioni – mira a orientare il lettore su alcuni elementi chiave. Lo fa utilizzando il metodo storico e appoggiandosi a un numero considerevole di fonti. Ogni risposta è corredata da un generoso apparato di note.
Trentasei domande, altrettante risposte. Un filo che scorre indietro nei secoli, risalendo all’impatto della diaspora ebraica, e poi si dipana fino al 7 ottobre 2023 e alla tragica attualità della guerra a Gaza. Ogni risposta si articola per quattro, massimo cinque, pagine ed è corredata da un apparato di note. Spesso le note costituiscono una risposta nella risposta. Forniscono infatti, insieme a documenti e volumi di riferimento, dettagli e approfondimenti che permettono di allargare lo sguardo sul tema oggetto della trattazione.
Questo, a grandi linee, l’impianto dell’ultimo libro di Lorenzo Kamel, docente di Storia del Medio Oriente e del Nord Africa, Storia globale, Studi coloniali e post-coloniali all’Università di Torino con alle spalle una lunga esperienza di ricerca in Israele (ha conseguito un master biennale all’Università ebraica di Gerusalemme) e in Palestina.
Il testo è uno strumento agile e dallo stile chiaro che – in poco meno di 200 pagine – mira a orientare il lettore su alcuni passaggi e questioni-chiave. Lo fa utilizzando il metodo storico e appoggiandosi a un numero considerevole di fonti.
L’autore si sofferma sui principali snodi storici che hanno segnato il percorso del conflitto israelo-palestinese. Ne ripercorre il quadro e le motivazioni. È il caso della partizione del 1947, della Guerra del 1967, del «processo di pace», del piano Olmert del 2008 e delle origini di Hamas.
Rispetto alla guerra del 1948 e ai suoi prodromi, ad esempio, individua tre fasi distinte, caratterizzate da un crescendo di tensioni tra la comunità ebraica e quella palestinese, fino all’apice dei massacri ed espulsioni di palestinesi avvenuti nel corso della terza fase, iniziata il 15 maggio 1948, giorno dell’attacco sferrato da alcuni eserciti arabi. Il bilancio di quella guerra fu di 418 villaggi palestinesi («531, se si conteggiano anche quelli beduini») eliminati dalle carte geografiche: «Molti di essi furono rasi al suolo, mentre una minoranza venne “ebraicizzata” nella popolazione e nei nomi. In non pochi casi questi ultimi riprendevano le denominazioni dei villaggi palestinesi preesistenti. (…) In diversi casi il Jewish National Fund fece piantare delle foreste sui villaggi spopolati».
Kamel insiste in più punti sul contesto. Da un lato, ne sottolinea l’importanza per non cadere in strumentalizzazioni: «il contesto o vale sempre – e penso sia l’opzione auspicabile – o non vale mai. Studiarlo non deve essere inteso come un modo per condonare i crimini e le violenze compiute dai palestinesi o dagli israeliani, bensì come uno strumento per andare alle radici delle questioni e fare luce sul contesto che ancora oggi fa loro da sfondo». Dall’altro lato, specifica quali aspetti lo rendono unico. Tra questi, il fatto che la Cisgiordania è la sola area al mondo in cui milioni di civili sono soggetti a tribunali militari da oltre cinquant’anni (secondo fonti ufficiali israeliane il tasso di condanne per i palestinesi in tali tribunali è pari al 99,74 per cento) e che è priva di un accordo sui confini. Sia Israele sia la Palestina, infatti, non hanno mai concordato dei confini, con la conseguenza che «teoricamente, tanto gli israeliani quanto i palestinesi potrebbero sentirsi in diritto di costruire insediamenti sul suolo riconosciuto dalla comunità internazionale alla controparte».
L’autore spiega inoltre l’inizio della storia dei palestinesi, l’origine del nome Palestina, perché è corretto parlare di una precisa identità palestinese e perché le parole – nel contesto di entrambi i popoli, appunto – contano eccome: «Chiamarli palestinesi – e non semplicemente “arabi” – è il minimo che si possa fare per riconoscere la loro storia e le cicatrici che la sottendono. D’altro canto, espressioni come “sionisti” o “entità sionista”, per riferirsi agli israeliani o a Israele, misconoscono una legittima millenaria ambizione, nonché la storia, il sentire e le scelte di milioni di ebrei/ israeliani. Chi utilizza queste o altre simili espressioni è mosso da pregiudizi e non sta aiutando in alcun modo il popolo palestinese».
Sono molteplici i pregiudizi, gli stereotipi e i cliché che il libro intende smontare. Tra questi, il ruolo delle donne palestinesi di ogni classe sociale, tutt’altro che passive nel corso della storia rispetto alla lotta di liberazione nazionale. O il fatto che la Palestina prima della nascita dello Stato d’Israele fosse una «landa brulla»: basti pensare che tra il 1856 e il 1882, al contrario, vi venne prodotto un notevole surplus agricolo esportato in Egitto, Libano, Europa attraverso i porti di Haifa, Giaffa e San Giovanni d’Acri.
In conclusione, vale la pena citare un detto ricordato a proposito della complessità di quella terra. Un detto (talvolta applicato anche ad altre realtà geopolitiche complesse – ndr) che può essere inteso anche come un monito e che suona così: «Il giornalista straniero che viaggia in Medio Oriente rimanendoci una settimana torna a casa per scrivere un libro in cui presenta una soluzione definitiva a tutti i suoi problemi. Se rimane un mese, scrive un articolo su una rivista o un giornale pieno di “se”, “ma” e “d’altro canto”. Se resta un anno, non scrive assolutamente nulla».
Lorenzo Kamel
Israele-Palestina
in trentasei risposte
Einaudi, 2025
pp. 200 – 13,00 euro