
La terza chiesa romana del cammino giubilare dedicato alle sante patrone d’Europa e dottori della Chiesa è intitolata a santa Cecilia, protettrice dei musicisti e dei cantanti. Anche santa Ildegarda di Bingen, celebre per le sue composizioni sacre, si dedicava alla musica e in questo Anno Santo è ricordata nella stessa basilica.
Nel vivacissimo quartiere di Trastevere, costellato di trattorie e locali dove si mangia all’aperto tutto l’anno e percorso da schiere di turisti, la chiesa di Santa Cecilia rimane quasi nascosta, situata com’è all’interno di un ampio cortile chiuso su tutti i lati che lascia fuori il rumore.
Appena varcato il maestoso portale di accesso, i pellegrini entrano in uno spazio di pace e raccoglimento e vengono accolti da un giardino con una fontana quadrata sormontata da una grande anfora di pietra di origine paleocristiana, probabilmente usata dai fedeli dell’antichità per compiere le abluzioni rituali prima delle funzioni religiose.
Dietro alla fontana sorge la basilica, con la sua facciata barocca e il campanile del XII secolo, stretta fra due monasteri. Stando alla leggenda, sarebbe stata costruita proprio sui resti della casa che appartenne a Cecilia, martirizzata intorno al 230, e a suo marito Valeriano.

La navata centrale della basilica di Santa Cecilia. (foto A. Repossi)
Ed è proprio in occasione delle sue nozze che, stando alla Passio sanctae Ceciliae, un testo del V secolo, risuonarono intorno a lei gli strumenti musicali che in seguito l’avrebbero resa patrona dei musicisti. La giovane non ascoltò quell’allegra confusione mondana, ma cantò in cuor suo per il Signore: si era infatti convertita al cristianesimo e aveva fatto il voto di rimanere pura. Quello stesso giorno convertì anche il novello sposo, che fu battezzato da papa Urbano I insieme al fratello Tiburzio, ma ben presto i due uomini vennero denunciati e poi decapitati perché seguaci del cristianesimo.
La giovane fu invece condannata a essere soffocata dai vapori bollenti del suo stesso calidarium, ma non morì, quindi venne sottoposta alla decapitazione. Nemmeno il boia fu in grado di darle una morte rapida: con la spada si accanì per ben tre volte sul suo collo senza riuscire a tagliarlo. Perciò Cecilia sopravvisse ancora per tre giorni e, ormai in agonia, pregò il papa di trasformare la sua casa in una chiesa. Stando alla Legenda Aurea, il pontefice acconsentì alla richiesta consacrando la dimora della santa, mentre una vera e propria basilica venne costruita sul posto alla fine del VI secolo.
Con il passare del tempo però si persero le tracce delle spoglie di Cecilia e fu la santa stessa, comparendo in sogno a papa Pasquale I nell’821, a rivelargli dove si trovavano: nella catacomba di San Callisto, sull’Appia, insieme a quelle di Valeriano, Tiburzio e Massimo, un funzionario di giustizia che aveva subito il martirio con loro.
Quell’anno il pontefice diede quindi l’ordine di restaurare la basilica, ormai cadente, in modo da potervi traslare i resti dei santi. È a lui che dobbiamo lo splendido mosaico ancora oggi visibile nell’abside, nel quale si fece ritrarre (con in testa il nimbo quadrato per significare che era ancora in vita al momento della realizzazione dell’opera) di fianco al Cristo benedicente e ai santi Cecilia, Paolo, Pietro, Valeriano e Agata.
La santa riposò indisturbata nella basilica per oltre 700 anni, quando nel 1597 iniziarono i lavori di ristrutturazione dell’edificio.
Ad avviarli fu il cardinale Paolo Emilio Sfondrati, uno dei personaggi più autorevoli della Roma del tempo, amico di san Filippo Neri e di Federico Borromeo, spinto probabilmente dal fatto che il Giubileo si sarebbe tenuto di lì a poco, nel 1600. Il cardinale fece ridipingere il soffitto, gli archi e le colonne, aprire una serie di finestre in alto e nell’ottobre del 1599 ordinò di scavare sotto l’altare maggiore.
Grande fu la meraviglia degli astanti quando venne trovato, come scrisse un anonimo che era presente, «il bellissimo corpo di S. Cecilia, ch’ancor lui sta in sul fianco destro con le ginocchia alquanto piegate, vestita con una sottanella di panno d’oro purissimo, con li piedi nudi, le mani gionte, la testa infasciata con un vello sottilissimo d’oro, di maniera che trasparisce il volto tutto, et li capelli, stando ogni cosa intera et morbida [c]ome se fusse morta hoggi; verso la gola, su la veste, et vello et giù per il petto, vi è gran quantità di sangue preso, per rispetto delle tre ferite che ha sul collo, che in gran copia dovettero mandar fura sangue dopo che fu morta».
Subito la notizia iniziò a circolare, tanto che la gente affollava le vie di Trastevere cercando di entrare in chiesa con ogni mezzo per vedere il corpo della santa miracolosamente conservato; per trattenere «l’impeto del popolo » si dovette chiamare addirittura la Guardia svizzera.
Tale era la grazia della santa ritrovata che il cardinale Sfondrati decise di commissionare al giovanissimo scultore Stefano Maderno (1576-1636) una statua di marmo che riproducesse la posizione esatta in cui il corpo era stato ritrovato, e questi realizzò il proprio capolavoro. La statua è ancora oggi conservata sotto l’altare maggiore, incorniciato da un elegante ciborio di Arnolfo di Cambio (1293), e ha le fattezze di una giovane distesa con la testa rivolta a terra come per esporre i profondi tagli incisi nel collo; le prime tre dita della mano destra sono sollevate a indicare secondo alcuni studiosi la fede della santa nella Trinità, secondo altri le tre giornate di agonia prima della morte, trascorse da Cecilia convertendo amici e parenti.
Come si legge nella Passio sanctae Ceciliae, infatti, la giovane disse a papa Urbano I: «Io ho chiesto a Dio la grazia di differire la mia morte per tre giorni proprio per avere il tempo di consegnare alla tua santità queste creature e pregarti di consacrare questa mia casa e di convertirla in chiesa».
E la chiesa è oggi affidata alle cure delle monache Benedettine, le quali rendono omaggio alla musica, di cui è patrona santa Cecilia, nel giorno della sua ricorrenza.
Ogni 22 novembre, infatti, i fanciulli cantori della Cappella Sistina entrano ufficialmente a far parte del coro omonimo dopo il necessario periodo preparatorio e si recano nella basilica di Trastevere per recitare il loro giuramento nel corso di una cerimonia solenne, indossando la veste bianca e rossa del coro.
Anche santa Ildegarda di Bingen (1098-1179), ricordata nella chiesa di Santa Cecilia in occasione dell’anno giubilare 2025, era una valente musicista: badessa del monastero di Rupertsberg (non lontano da Magonza, oggi nel sudovest della Germania) compose un’ottantina di liriche, raccolte sotto il titolo di Symphonia harmoniae caelestium revelationum, e un dramma (Ordo virtutum).
L’Ordo virtutum è il più antico dramma morale allegorico giunto fino a noi, oltre che l’unico prodotto nel Medioevo di cui sia noto l’autore (in questo caso, l’autrice) di testo e musica. Il talento di Ildegarda risulta ancora più sorprendente perché la santa non aveva mai ricevuto un’educazione musicale, né suonava alcuno strumento: si limitava, insieme alle suore del suo convento, a cantare i salmi più volte al giorno seguendo la liturgia delle Ore. Si sa però che aveva visioni mistiche e, nel suo primo libro profetico, il Liber Scivias, presentò i testi delle liriche da lei composte affermando che nascevano dalle sue audizioni di musica celeste.

Il mosaico nel catino absidale della basilica (VIII secolo). (foto A. Repossi)
Ma le sue doti non si limitavano alla musica: Ildegarda è tra le figure femminili di maggior rilievo del XII secolo, conosceva la botanica, la scienza e la medicina e ci ha lasciato numerosi scritti. I più noti sono i suoi tre testi profetico-teologici: il già menzionato Liber Scivias, il Liber vitae meritorum e il Liber divinorum operum, poi vi sono un paio di trattati medico-naturalistici (Physica, Causae et curae), numerose opere a carattere religioso (vite di santi, testi didattici) e due trattati linguistici nei quali aveva inventato un idioma tutto suo, con un alfabeto di sua creazione, tra le più antiche lingue artificiali di cui si abbia notizia.
Così come con la musica, lo stesso le succedeva con la parola scritta: Ildegarda non aveva frequentato la scuola, eppure sapeva scrivere in latino, e con notevole competenza, di varie materie.
Era talmente rispettata per le sue doti e la sua sapienza che papa Eugenio III la autorizzò a parlare in pubblico (cosa allora impensabile per una donna) e i papi Adriano IV e Alessandro III la inviarono a compiere vari viaggi pastorali per predicare nelle piazze e nelle chiese.
Per queste ragioni, nel 2012 papa Benedetto XVI le ha attribuito il titolo di Dottore della Chiesa universale e ha concluso la sua lettera di proclamazione affermando che «l’attribuzione del titolo […] a Ildegarda di Bingen ha un grande significato per il mondo di oggi e una straordinaria importanza per le donne.
In Ildegarda risultano espressi i più nobili valori della femminilità: perciò anche la presenza della donna nella Chiesa e nella società viene illuminata dalla sua figura». Un messaggio da ricordare in occasione di questo Giubileo 2025.
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