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Storie di donne irachene solidali

Laura Silvia Battaglia
21 marzo 2023
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Storie di donne irachene solidali

Chi non lo immaginava, leggendo questo libro scoprirà che le donne irachene sanno difendere i propri diritti insieme. Senza farsi dividere dal loro essere sunnite o sciite, cristiane, curde, turkmene, yazide...


Se c’è un Paese nell’area del Golfo in cui non ti aspetteresti che le donne sappiano lottare fino in fondo per difendere (e ottenere) i loro diritti, quel Paese è l’Iraq. Probabilmente perché lo stereotipo della donna orientale, incastonata nella società patriarcale, è duro a morire, certo. Ma anche perché, da una terra così colpita da disgrazie pluridecennali – una dittatura, due guerre, l’occupazione americana, una guerra interna recente e, soprattutto, una dilagante corruzione – non ci si potrebbe attendere altro che una società svuotata dalla speranza e ripiegata sul dolore collettivo.

Non che non sia così. Lo sottolinea Renata Pepicelli, docente di Storia del mondo arabo all’università di Pisa, a introduzione del primo libro di questa collana che si chiama Manifesta: «La pubblicazione di questo libro avviene nel ventesimo anniversario dell’occupazione da parte degli Stati Uniti dell’Iraq e mostra il devastante peso che ancora oggi quella guerra ha sul popolo iracheno e per le popolazioni della regione. Tuttavia, le storie qui raccontate rappresentano anche la sottile speranza di ricucire il mondo».

Cosa significa, dunque, provare a ricucirlo? Sicuramente costruire legami di solidarietà: gli stessi che l’autrice Silvia Abbà individua e racconta nella storia del femminismo e delle femministe irachene dal 1920 ad oggi, una storia che travalica la divisione settaria della società, esistente sì, ma enfatizzata e messa a sistema, con l’effetto della distruzione delle relazioni sociali, a partire dal varo della Costituzione, oggi vigente, nel 2006.

Chi non lo immaginava, leggendo questo libro, verrà a sapere che le donne irachene non fanno alcuna differenza del loro essere sunnite, sciite, cristiane, curde, turkmene o yazide, se si tratta di difendere – per esempio – una legge del 1959 che vieta i matrimoni precoci. D’altronde qui furono le donne, nel 1920, a iniziare le proteste anti-coloniali contro gli inglesi ed è in questo stesso Paese – come ricorda Martina Pignatti, direttrice dei programmi della ong Un ponte per – che nel 1959 è stata nominata la prima donna-ministro in tutto il Medio Oriente (in Italia si è dovuto attendere il 1976 per vedere Tina Anselmi alla guida del dicastero del Lavoro e della Previdenza Sociale).

La chiave di questo successo sta anche nel fatto che il femminismo iracheno rifugge dall’«essenzializzazione delle identità» e accetta, per storia e cultura locali, i «posizionamenti plurimi». Dunque, prima di essere e concretizzarsi in azione e attivismo, il femminismo appare come una pratica relazionale: è una «questione di metodo» che, a poco a poco, si è concretizzata nel principale teatro della rivoluzione dell’ottobre 2019, quella piazza Tashreen, dove donne e uomini si battevano insieme per una causa comune: riconoscersi tutti iracheni e rinnegare la corruzione su cui si basa la Muhasasa Ta’ifia, ossia il sistema politico settario (e sessista) attuale.

Le storie e le vicende raccontate dalla ricercatrice e operatrice umanitaria Silvia Abbà – senza cedere alla tentazione di uno sguardo giudicante neo-colonialista – sono diversissime e si dipanano lungo la retta della Storia: dalla conquista degli inglesi alla – recente e parziale – conquista dello Stato islamico (Isis, o Daesh). Per tutte, valgano ad esempio le scelte di due donne diversissime: Hana Edwar, comunista e femminista, già leader del movimento studentesco degli anni Sessanta, che si è battuta per ottenere alle donne il 40 per cento dei seggi in Parlamento nel 2006 con lo slogan «Per noi donne non esiste linea rossa»; e Rajaa Ahmed, attivista 33enne di Fallujah, che sceglie di coprirsi con il niqab da ragazzina ad imitazione delle donne di famiglia, ma che si ribella ai miliziani dell’Isis quando la picchiano per obbligarla a indossare i guanti. Da allora Rajaa, in segno di protesta, li indosserà bianchi, anziché i neri regolamentari, rischiando la vita.

Leggendo Il mio posto è ovunque, è inevitabile ripensare alla madre di tutte le femministe irachene: Rabia al Adawiyya, da Bassora, la mistica figlia di quasi schiavi (e schiava lei stessa), che, nell’Ottavo secolo, fu la prima e più amata donna santa dell’islam sufi, subito dopo le famigliari strette del profeta Mohammad. Dopo aver ottenuto la libertà, e già considerata alla stregua di una santa, ai potenti che la andavano a trovare in cerca di un miracolo o nella speranza di sposarla, rispondeva così: «Non ne ho il tempo».

 


Silvia Abbà
Il mio posto è ovunque
Voci di donne per un altro Iraq
Astarte edizioni, 2023
pp. 152 – 16,00 euro

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