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Tra odio e libertà d’espressione, negli Usa i nuovi media alla sbarra

Fulvio Scaglione
25 gennaio 2023
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La famiglia di una delle vittime del terrorismo jihadista a Parigi nel 2015, ha fatto causa negli Usa al canale YouTube, per non aver arginato i video d'odio dei terroristi, facilitando così il reclutamento di nuovi adepti. Il caso è giunto alla Corte Suprema. Il dibattito sul tema è cruciale per le democrazie occidentali.


Nel giugno dell’anno scorso un tribunale francese ha emesso le condanne per i terroristi islamisti che nel 2015, a Parigi, uccisero 130 persone in diversi attentati, compreso quello nel Teatro Bataclan. Ergastolo senza possibilità di libertà condizionale (una pena inflitta solo quattro volte nella storia della Francia) per Salah Abdeslam, l’unico dei terroristi sopravvissuto, e pene dai due anni all’ergastolo per i numerosi complici.

Adesso la vicenda giudiziaria legata a quelle drammatiche giornate prosegue negli Stati Uniti, in un modo che potrebbe molto influire sulle nostre abitudini. Nel 2015, a Parigi, morì anche una cittadina americana, Nohemi Gonzales detta Mimi, studentessa californiana di 23 anni, arrivata nella capitale francese per studiare design. Stava cenando in un ristorante quando i terroristi cominciarono a sparare.

La famiglia Gonzales ha fatto causa al canale YouTube, collegato a Google, perché l’algoritmo del social avrebbe fatto in modo che «gli utenti visualizzassero video infiammatori creati dall’Isis, video che hanno svolto un ruolo chiave nel reclutamento di combattenti pronti a unirsi all’Isis nella conquista di una vasta area del Medio Oriente e nel commettere atti terroristici nei loro Paesi d’origine».

La causa è stata portata davanti alla Corte Suprema perché nei precedenti gradi di giudizio le sentenze sono sempre state favorevoli a Google, sulla base dell’articolo 230 della legge americana sulle comunicazioni del 1996 che stabilisce che le compagnie Internet non possano essere ritenute responsabili di ciò che viene pubblicato da una terza parte o di ciò che viene da loro deciso durante la moderazione dei contenuti.

Eppure noi sappiamo bene, da un’infinità di casi raccontati negli anni peggiori, che molto spesso il reclutamento delle nuove leve del terrorismo è avvenuto attraverso la comunicazione via Internet, i social, le chat. La drammatica iniziativa della famiglia Gonzales, quindi, pone un problema reale, che non può essere ignorato e che infatti è stato a tratti già discusso. In che modo una società democratica può evitare che i suoi strumenti (in particolare quelli della comunicazione attraverso le nuove tecnologie) possano essere usati per scopi non democratici o addirittura (come nel caso dell’Isis o come molti pensano abbiano fatto gli hacker russi e cinesi) per danneggiare o abbattere quella stessa democrazia? Dove corre il confine tra libertà e fragilità, tra controllo e censura, considerata anche la continua evoluzione di certi strumenti?

In un mondo in cui la conflittualità cresce e che pare destinato a uno scontro (non necessariamente armato) di lungo periodo tra due visioni radicalmente opposte, padroneggiare la Rete e piegarla ai propri scopi, legittimi o meno che siano, diventerà un elemento decisivo.

I Gonzales, con il peso del loro dramma familiare, ce lo stanno ricordando.

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