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L’Iraq impantanato dopo il terremoto in parlamento

Elisa Pinna
24 giugno 2022
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La politica irachena torna ad essere un campo di battaglia con tutti contro tutti, dopo le dimissioni in blocco dei 73 deputati del partito dello sciita Moqtada al Sadr, invano premiato dagli elettori nel voto dell'ottobre 2021.


Con una decisione improvvisa, il leader sciita iracheno, Moqtada al Sadr, vincitore delle elezioni tenutesi nell’ottobre 2021, ha annunciato lo scorso 9 giugno le dimissioni collettive dei suoi 73 deputati dal parlamento di Baghdad, facendo sprofondare la politica nazionale in un caos ancora maggiore di quello in cui già si trovava. A più di due settimane dalla sua decisione, non è chiaro tra gli analisti perché l’imprevedibile personaggio (un chierico sciita anti-americano e anti-iraniano con un seguito di centinaia di migliaia di persone) abbia fatto saltare il tavolo e quali scenari si aprano ora.

La mossa di Moqtada al Sadr in apparenza ha un suo perché: da otto mesi il suo partito stava cercando, insieme ai due nuovi alleati, un cartello sunnita e un cartello curdo, di conquistare la maggioranza qualificata di due terzi del Parlamento per potere nominare, come prevede la costituzione irachena, il nuovo capo del governo. Per una manciata di voti, però, i numeri non si sono mai trovati. Il 9 giugno, al Sadr ha così detto di voler uscire «dal processo politico e da qualsiasi collaborazione con i corrotti».

Lo scorso ottobre, al Sadr, da sempre un giocatore in proprio, aveva spezzato, per la prima volta nella recente storia irachena, gli schemi del sistema per quote confessionali, un po’ alla libanese, creato dagli Stati Uniti nell’era del dopo Saddam. Arruolando come partner di maggioranza sunniti e curdi, il leader sciita iracheno puntava ad essere lui il regista esclusivo e il principale beneficiario della partita. Le altre formazioni sciite, di impostazione filo-iraniana e federate nel cosiddetto Quadro di Riferimento, erano state relegate all’opposizione, un fatto certo non gradito ai vicini ayatollah. Stare all’opposizione è molto di più di un disonore politico. Significa non mettere le mani sulle risorse statali che consentono alle varie milizie di sopravvivere e prosperare.

Ora però, con le dimissione in massa dei suoi deputati, i seggi – secondo la legge irachena – passeranno in automatico ai secondi arrivati nel voto elettorale: su 73 posti, 50 andranno proprio alla coalizione dei filoiraniani che diventeranno il primo partito e potrebbero cercare di tenere in piedi la legislatura.

C’è dunque chi – nei media locali e internazionali – parla apertamente di una sconfitta di Moqtada al Sadr e di una rivincita di Teheran. Sarebbe il risultato di uno scontro diretto, in cui il politico iracheno avrebbe dovuto chinare la testa di fronte a pressioni troppo forti , secondo il sito conservatore statunitense Atlantic Council .

Ad avviso del Middle East Eye (Mee), non sarebbe stato il chierico nazionalista a piegarsi; il cedimento sarebbe avvenuto tra i curdi di Massud Barzani, sottoposti ad un crescendo di minacce da parte dei Pasdaran iraniani, e sempre più insoddisfatti dell’alleanza infruttifera con al Sadr. Ciò spiegherebbe il cambio repentino di umore tra l’8 e il 9 giugno scorsi. L’8 giugno Al Sadr aveva annunciato, con toni da trionfo, l’approvazione della legge (votata anche dall’opposizione) per sostenere la sicurezza alimentare in Iraq, in tempi di siccità e di importazioni di grano a rischio. Solo dopo 20 ore, il 9 giugno il fulmine a ciel sereno delle dimissioni di massa, annunciate con l’aria – scrive ancora il Mee – di chi è stato accoltellato alle spalle. In quell’intervallo di tempo, una bomba era scoppiata davanti alla residenza di Barzani, vicino ad Erbil, e all’esplosione era seguita una telefonata, il cui contenuto non è stato rivelato, tra il leader curdo e al Sadr.

Se poco si conosce di quello che è realmente avvenuto, altrettanto incerti sono gli sviluppi.

Un primo scenario, che in qualche modo confermerebbe la “sconfitta” di al Sadr, potrebbe tradursi – secondo alcuni – in una nuova maggioranza politica, nuovamente a trazione iraniana, forse addirittura in grado di formare, con qualche giravolta, un governo, seppur debole e impopolare. Difficile immaginare però che Sadr si metta da parte, in silenzio, aspettando di capitalizzare nelle prossime elezioni politiche.

In un secondo scenario, variante più radicale del primo, il leader sciita, per nulla disposto alla resa, avrebbe ritirato i suoi deputati dal parlamento per mandarli dove, in passato, hanno mostrato di dare il meglio di sé: nelle piazze, in uno scontro diretto con i filo iraniani e gli altri concorrenti interni. Un classico iracheno del tutti contro tutti. A Sadr City, riferisce in un reportage il Washington Post, i fedelissimi del chierico sono pronti a tornare alle battaglie di strada.

È ancora presto per capire cosa accadrà nelle prossime settimane. Intanto a Baghdad il termometro supera i 43 gradi, la corrente elettrica funziona qualche ora al giorno, o anche no, e i nervi della popolazione sono a fior di pelle.

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