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In luglio i sauditi attendono un Biden meno spavaldo

Fulvio Scaglione
29 giugno 2022
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L'anziano presidente degli Stati Uniti Joe Biden arriva a Riyadh il 13 luglio 2022, in un momento in cui il potere di contrattazione del giovane principe ereditario saudita Mohammed bin Salman è forse ai massimi livelli. Riuscirà a convincerlo a distanziarsi da Mosca?


Di qui a pochi giorni, tra il 13 e il 16 luglio, il presidente statunitense Joe Biden sarà in Medio Oriente, per una visita in Israele e, soprattutto, in Arabia Saudita, dove cercherà di convincere il principe ereditario Mohammed bin Salman a sganciare le sorti del suo Paese e dell’Opec da quelle della Russia e ad aumentare la produzione di petrolio per dare sollievo alle economie occidentali.

Biden, però, arriva a Riyadh in un momento in cui il potere di contrattazione del principe saudita è forse ai massimi livelli. L’impegno americano contro l’invasione russa in Ucraina non riesce a nascondere, infatti, le difficoltà che l’amministrazione Biden incontra sul fronte interno. Non c’è osservatore che non dia per scontata una sconfitta dei democratici alle elezioni legislative di metà mandato, previste per l’autunno.

Se ciò avvenisse, la presidenza Biden sarebbe ridotta alla classica “anatra zoppa”, costretta per i restanti due anni ad affrontare uno sfiancante Vietnam parlamentare, limitata nell’iniziativa politica e nella capacità d’azione. In Arabia Saudita, Biden andrà per chiedere. Non con il cappello in mano, ma nemmeno con la sicumera con cui, non troppo tempo fa, Biden prometteva di «trattare come un paria l’assassino del giornalista Kashoggi» (ovvero Bin Salman stesso) e prometteva di risolvere la questione del nucleare dell’Iran, così temuto dai sauditi.

Questo, però, non è solo il caso degli Usa ma anche delle altre potenze che giocano, o vorrebbero giocare, un ruolo importante in Medio Oriente. La Russia, che si è lanciata nell’avventura ucraina, ha ancora buoni rapporti con sauditi ed emiratini, ma è stata costretta a ridurre il proprio impegno. Diversi reparti delle forze armate e gruppi dell’esercito mercenario Wagner sono stati ritirati dalla Siria per essere trasferiti sul fronte europeo e la Russia, tra le sanzioni economiche e la Nato che si allarga fino a prospettare un’alleanza non più atlantica ma mondiale, ha bisogno di conservare alleanze e relazioni. Vladimir Putin ha una buona relazione con Mohammed bin Salman ma in questa fase è il Cremlino ad aver assoluto bisogno che l’alleanza petrolifera regga e che i sauditi non cedano alle sirene americane. Un aumento della produzione vorrebbe dire un calo dei prezzi, evento esiziale per una Russia che con gli introiti degli idrocarburi finanzia non solo la guerra ma anche la tenuta del proprio sistema economico e sociale.

Stesso discorso per la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Il rais si è piazzato bene nello scontro tra Ucraina (e Ue e Nato) e Russia, come si è visto anche nel vertice Nato del 28-30 giugno a Madrid. Il Paese è da anni in preda a una crisi economica che pare senza soluzioni (l’inflazione annua è oltre il 70 per cento) e l’anno prossimo Erdogan è atteso alla prova di elezioni presidenziali e politiche che si preannunciano difficilissime per il suo sistema di potere. Da qui la strategia di conciliazione adottata verso Paesi come Egitto e Israele, ma soprattutto Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che hanno forzieri stracolmi di dollari che potrebbero essere investiti nella pericolante economia turca.

Resta Israele, dove la coalizione di otto partiti che sosteneva il governo Bennett-Lapid è naufragata miseramente, portando il Paese alle quinte elezioni politiche in tre anni. Difficile che un Paese così mutevole e instabile, per di più probabilmente avviato verso una maggioranza politica (sempre che se ne formi una) di destra radicale, già legato all’Arabia Saudita da una serie di accordi non ufficiali ma non meno saldi degli Accordi di Abramo, possa esercitare troppa pressione su Mohammed bin Salman.

Il quale, come si vede, si trova ora in una specie di stato di grazia ed è di fatto il fulcro della politica mediorientale in un momento di sconvolgimenti globali. Vedremo come cercherà di approfittarne.

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